La gente di Ribolla
LA BOTTEGA DEL SABATINI
Eccolo lì mio padre. E la foto credo sia del ‘58, oppure il ‘62: gli unici anni recenti nei quali, Santa Barbara, ricorresse di giovedì. Il manifesto parla chiaro. La Bottega, naturalmente, risale a molto tempo prima. La sua storia, mi hanno detto, comincia intorno al 1915, e la pone tra le più antiche di Ribolla. Tuttavia, a quei tempi, il locale non era lo stesso della foto, bensì quello accanto, dove si trova adesso l’abitazione di zia Osetta, la sorella di mio padre.
La vecchia bottega di Sergio Sabatini.
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Spostamenti vari, dovuti a cambiamenti di attività, e la ricerca di maggiore spazio, furono alla base della definitiva sistemazione, quella di adesso. Sono infinite le vicende umane consumate in questo luogo, molte delle quali apprese per sentito dire. Racconti uditi le sere d’estate, nel piazzale di fronte, al fresco della pergola di vite canadese, quando Babbo, sovente invitato dagli ascoltatori, amava rievocare gli anni, come si diceva allora, “del dopoguerra subito”. Birra Wuhrer, Brandy Tre Stelle, vino e gazzose, questa la scelta, allora. A mezzanotte ci volevano i Carabinieri per far sloggiare i clienti dal locale. Minatori, per lo più. Gente che veniva ad affogare lo squallore della propria vita in un bicchiere di qualcosa. E non mancavano le risse. Non come quelle del Far West, questo no, ma spesso c’era da menare le mani, questo sì. Potrei raccontare, quasi l’avessi vissuta di persona tanto l’ho sentita ripetere, quella del marchigiano. Non ricordo più il nome. Babbo, certo me lo ha detto e ripetuto, ma la mia attenzione di bambino ripiegava sempre sull’azione vera e propria, sulla scazzottata. Questo tizio, diceva Babbo, era un noto attaccabrighe. Si sapeva che era fatto così, per questo era tenuto d’occhio, soprattutto avvicinandosi alla mezzanotte. Fu grazie a questa particolare attenzione, che quella sera Babbo riuscì ad agguantare al volo uno sgabello di legno, che il marchigiano aveva scagliato verso la vetrina del bar. E poi? Il marchigiano aveva voglia di menare le mani, e si era avventato su mio padre come una furia. Un cazzotto in faccia lo aveva mandato a gambe levate, proprio in fondo alla stanza. Ma l’uomo si era rialzato subito, catapultandosi, questa volta, a testa bassa di nuovo verso mio padre, che lo aveva atteso per colpirlo, infine, con una ginocchiata. Proprio sotto il mento. Se fossi un regista, questa scena, sarei ormai in grado di filmarla con tutte le sfumature. Ed anche quella di quei militari americani, neri perlopiù, tutti ubriachi fradici, che trascinavano le gambe e si reggevano l’un l’altro. Bravi ragazzi, presenti tutti i giorni, che quella volta avevano forse un po’ esagerato. Si diceva che mio padre li avesse affrontati, tenendo semplicemente una mano dentro la tasca dei pantaloni, a significare che lì, in quella tasca, ci fosse una pistola pronta a uscire, e chissà… Non c’era nulla, naturalmente, ma i militari se ne andarono, promettendo di tornare più sobri, un’altra volta. Storie, si dirà. Ma erano storie vere, confermate anche da altri avventori. Persone che, tra un caffè e una birra, davano colore alle mie serate. In quei racconti io vivevo, man mano che la narrazione procedeva, con l’attenzione totale del bambino, calandomi nei fatti fino a divenire quasi un personaggio che ne facesse parte. Quattro damigiane di vino al giorno, raccontava Babbo, assecondato dai clienti. E a volte non bastavano neppure.
Altri tempi, altri tempi…
Questa foto, tutto ciò non lo dice. Tuttavia, guardandola, io ritorno indietro agli anni della mia infanzia, quando quel Bar era il mio regno, ed io il suo ospite preferito. Rivedo il banco così com’era: quel verde pastello con una striscia marrone nel mezzo, che terminava in una vetrina formata da tante striscioline di vetro una accanto all’altra, verticali. Era una specie di palcoscenico, quella vetrina. Serviva, soprattutto, a farmi capire, senza neppure chiederlo, in che periodo dell’anno si fosse. Agli articoli vari di tabaccheria, che si alternavano, facevano riscontro le uova e le colombe di Pasqua, ma soprattutto quei dolci, che inesorabilmente, ma puntualmente, come i rintocchi del campanile di una chiesa battono le ore, segnalavano l’arrivo del Santo Natale. Cavallucci, panettoni, ricciarelli (i miei preferiti), e poi il panforte, s’impossessavano della vetrina sfruttando la scena con sfacciata prepotenza, per porsi all’attenzione della gente, agghindati in quelle loro confezioni tipiche, come dame nell'attesa del gran ballo. Era così che cominciavo a respirare l’atmosfera del Natale. Di sera, i clienti più giovani, giocavano “a panforte” per ore, senza che mi stancassi di osservare quella specie di rito (in realtà era così che lo vedevo io), che consisteva nello scagliare il panforte su un tavolo, facendo in modo di avvicinarsi il più possibile ai bordi, ma senza farlo cadere. Batti e ribatti, il panforte si sfaceva ed era diviso e mangiato tra tutti i giocatori. Qualcosa, spesso, toccava anche a me, naturalmente. Ma io mi divertivo anche quando non mi davano niente. Mi bastava vedere. Mi bastavano le parole di quei ragazzi, allora giovani ed oggi non più, i loro gesti, le loro grida di soddisfazione e di delusione per un tiro azzeccato o sbagliato. Anche di loro, mi parla questa foto. Guardando il banco, così com’era disposto, e l’immagine di mio padre, automaticamente associo il tutto ai volti e le voci dei clienti di allora. Persone di tutte le età, che a turno mi hanno tenuto sulle ginocchia, così come si potrebbe fare con una mascotte. Ragazzi che mi prendevano in giro con goliardia, trascorrendo ore con questo ragazzetto che sapeva raccontare barzellette e si metteva a piangere se gli parlavano male della Fiorentina, oppure se gli dicevano che l’auto di suo padre era un “bussolotto”. Ci si divertiva con poco, a quei tempi. Anche se avrò avuto, pressappoco sei o sette anni, mi è rimasta l’immagine delle lunghe file di sedie, già apparecchiate e prenotate, pronte per accogliere chi voleva vedere “Lascia o raddoppia” o “Capitan Fracassa” oppure le tre serate del Festival di Sanremo. La TV l’avevano pochi. Un solo canale, le trasmissioni che iniziavano il pomeriggio alle cinque. Mi piaceva guardare i programmi in mezzo a tanta gente. Mi sentivo come se, la soddisfazione che provavo, fosse condivisa dai presenti e restituita a me, amplificata e moltiplicata. Vedere la TV con il bar affollato era una specie di avvenimento, qualcosa che dava spessore alla mia giornata, un appuntamento atteso sin dalla mattina. Sì, la Bottega del Sabatini è stato il mio regno per tanto tempo. Guardare quest'immagine è come aprire, in qualche modo, una specie di scrigno in cui sono contenute tutte le cose che hanno dato serenità e gioia alla mia infanzia e, in parte, anche alla mia adolescenza. Riesco perfino a vedere il biliardo in fondo alla stanza, con la televisione appollaiata su quel treppiede come la punta dell’albero di Natale, nonostante il fotografo non li abbia inquadrati. E mi pare di sentire il rumore del macinacaffè, il lento e inesorabile ronzio del frigorifero di legno, i rumori dei bicchieri sbattuti in fondo al lavello in metallo e quello della bocca del fiasco del vino, quando si appoggiava al “cinquino” oppure al “ventino”. Parole magiche, oggi forse in disuso, che indicavano il tipo di bicchiere richiesto per la consumazione, come avrei avuto modo di imparare a partire dall’estate del ‘64. Il banco, così come si vede in foto, anche allora era a destra entrando nella stanza, a destra rispetto all’obiettivo. Anni dopo, nel ‘71 mi pare, fu spostato dalla parte opposta. Ma sarà l’inizio di un‘altra storia.
E questa foto non la racconta.
Norberto Sabatini