GIORNALE DEL MATTINO

del 9 ottobre 1958

Sarà una battaglia di dati e di perizie




Il processo per la sciagura di Ribolla
rinviato a lunedì dopo la prima udienza

DAL NOSTRO INVIATO GIAN PAOLO CRESCI

Verona, 8.
Nessuno parlerà per i morti. Le famiglie dei quarantatré minatori morti nella miniera di Ribolla, la mattina del 4 maggio 1954, non si sono costituite parte civile al processo contro i cinque tecnici della Montecatini e il direttore del distretto minerario di Grosseto responsabili, secondo l'accusa, di quel disastro che impressionò l'Italia.
Il processo è incominciato stamani al tribunale di Verona e seduti nello spazio riservato agli imputati c'erano l'ing. Leonello Padroni, direttore della miniera di Ribolla, l'ing. Giulio Rostand, direttore generale delle miniere della Montecatini, l'ing. Gaetano Carli, direttore tecnico delle miniere che la stessa società possiede in Maremma, l'ing. Antonio Marcon, capo servizio principale di Ribolla, l'ing. Roberto Baseggio, capo servizio addetto alla sezione Camorra e l'ing. Tullio Seguiti, funzionario del distretto minerario del grossetano.

Quarantatré omicidi colposi
Tutti sono accusati di quarantatré omicidi colposi, di undici lesioni colpose gravi oltre che di numerose contravvenzioni alle leggi minerarie.
Ogni imputato è assistito da due avvocati, affiancati da consulenti e esperti.
Stamani, per la prima volta a Verona, l'udienza è stata registrata su nastro magnetico e il cancelliere si è limitato ad azionare la macchinetta ed a preparare qualche elenco per i giudici.
Il collegio delle difesa è composto dagli avvocati De Marsico, Carli, D'Andrea, Delitala, Ungaro, De Luca, Nelli, Politi, Ostorero, Castelnuovo Tedesco e Tino.
Fra i consulenti tecnici, chiamati dai difensori, ci sono i professori Catta di Cagliari, Aprile di Palermo, Melcuori di Napoli, Leone e Bonino di Bologna, Carli di Roma e l'ing. Usini che fu ispettore generale per la sicurezza nelle miniere.
Per le ventidue vedove, per i diciannove orfani e per le trentaquattro madri dei poveri morti nessuno, come si è detto, interverrà nel dibattito perché la Montecatini ha tacitato tutte le famiglie delle vittime. Si dice, e la notizia ci è stata confermata da alcuni legali interessati nella vicenda, che il complesso industriale milanese abbia speso, per indennizzare le famiglie dei morti, ottocento milioni.
Il processo, perciò, è stato svuotato completamente di tutti i lati umani e inquadrato su schemi rigidamente tecnici. “Sarà una battaglia di perizie – ha detto stamani l'avvocato Delitala – attraverso le quali cercheremo di dimostrare che i tecnici della miniera non hanno avuto alcune responsabilità nella sciagura. Sarà un processo arido, fatto di cifre, di radici quadrate e di dati scientifici. Penso che durerà due mesi”.

I parenti delle vittime
I nomi dei minatori sepolti a duecento metri sottoterra probabilmente non verranno neppure pronunziati durante il dibattito. Erano elencati nella sentenza di rinvio a giudizio ma nella lettura fatta stamani in aula le pagine dove erano scritti quei nomi sono state saltate perché non interessavano i giudici.
Molti dei loro familiari sono venuti a Verona per assistere al processo: una trentina di persone, partite ieri da Grosseto e da Roccastrada e giunte stamani all'alba. Nel cortile del palazzo di giustizia, dopo nove ore di treno, nell'aspettare che giungessero i giudici, parlavano di ciò che avvenne quella terribile mattina
di maggio di quattro anni fa quando l'inferno esplose nei pozzi di lignite di Ribolla. Le donne erano quasi tutte vestite di nero: piangevano e tremavano come se la sciagura fosse accaduta due giorni fa.
L'accusa – che durante il processo verrà sostenuta dal P.M. Dott. Bianchi – afferma che il disastro sarebbe stato evitato se la direzione della miniera avesse osservato le leggi che tutelano il lavoro dei minatori. All'ing. Padroni, in particolare, vengono rivolte gravi accuse. È responsabile – sempre secondo i capi di imputazione – di aver fatto lavorare gli operai in condizioni estremamente pericolose, in una miniera cioè suscettibile di incendi e soggetta a sviluppo di gas esplodente ed infiammabile. Tra l'altro, all'ing. Padroni, si rimprovera di avere istituito un sistema di lavorazione o di “coltivazione”, come dicono i minatori, che, seppure vantaggioso economicamente per la “Montecatini”, non rispettava gli obblighi imposti dalla legge.
Inoltre l'ing. Padroni non avrebbe osservato le prescrizioni che impongono una accurata ventilazione nelle miniere in modo da poter eliminare rapidamente i gas che possono formarsi nelle gallerie. La mancanza di questa aerazione e la errata apertura di un nuovo pozzo sarebbero state le cause della sciagura.
Per comprendere ciò che avvenne a Ribolla la mattina del 4 maggio '54, bisogna tener presente un episodio di fondamentale importanza. L'anno prima, nella sezione ovest del pozzo “Camorra”, era stato scavato un cunicolo per estrarre la lignite. Ad un certo momento, però, si sviluppò un incendio e la galleria fu chiusa.
Nel '54, infine, venne fatta un'altra apertura con lo scopo di raggiungere quella già esistente. Quando i due cunicoli si incontrarono, l'incendio divampò nuovamente: a questo punto l'accusa sostiene non fu interamente domato e che la lignite infiammata, a contatto con l'aria, provocò un fenomeno che origina il “gas di distillazione”.

La tremenda esplosione
Ebbene, questo gas, mescolato alla polvere di carbone che c'era nell'aria, per il surriscaldamento dell'ambiente, si incendiò, provocando l'esplosione. Se i cunicoli avessero avuto una sufficiente aerazione, affermano i periti dell'accusa, il gas sarebbe stato spinto fuori della miniera e l'esplosione evitata. Infine se i tecnici avessero fatto riempire il pozzo incendiato nel 1953, si sarebbe evitato sicuramente l'incendio e quindi la formazione del gas di distillazione.
Ed ora sentiamo la tesi sostenuta dalla difesa della “Montecatini”. Prima di tutto, dicono gli imputati e i loro consulenti tecnici, l'esplosione non fu provocata dal gas di distillazione, bensì dal “grisou”.
“Il fiato del diavolo”, come lo chiamano i minatori, è filtrato dalle pareti della miniera - essi sostengono -; si tratta di un fenomeno normale ed inevitabile. L'incendio del vecchio cunicolo, la lignite infuocata, il surriscaldamento dell'ambiente non c'entrano.
Stamani, dopo la costituzione del collegio di difesa, il presidente ha interrogato il principale imputato, l'ing. Padroni, che è assistito dall'on. De Marsico e dall'avvocato fiorentino Guido Carli. Il Padroni ha ribadito appunto questo concetto.
“L'esplosione – ha detto – avvenne probabilmente per un quantitativo di grisou che si era accumulato nel cunicolo. Un ventilatore secondario deve essersi fermato impedendo al 'fiato del diavolo' di uscire dalla miniera”.
- Perché si fermò il ventilatore? - ha chiesto il presidente.
“Si tratta di apparecchi – ha risposto l'ing. Padroni – muniti di interruttori automatici che scattano ad ogni variazione di temperatura. Forse l'automatico si era guastato. Può darsi – ha aggiunto l'imputato – che un elettricista, passando davanti al ventilatore e vedendolo fermo, lo abbia messo nuovamente in movimento, facendo uscire violentemente il grisou. Una scintilla – ha concluso Padroni – della lampadina elettrica dello stesso elettricista può aver provocato l'esplosione”.
Se la tesi della difesa è valida, fu un elettricista quindi a provocare la sciagura. Si tratterebbe, in ogni caso, di una delle vittime che ha già pagato con la vita, l'eventuale imprudenza.
La difesa presenterà comunque una super perizia nel corso del dibattito.
Le udienze verranno riprese lunedì prossimo.

(Archivio Roberto Calabrò)

Indietro