LA NAZIONE ITALIANA

16 ottobre 1958

Duello di periti a Verona sul disastro di Ribolla

 

Incerto il responso degli esperti nominati dal tribunale – Grisù o gas
di distillazione? - Difficile accertamento delle responsabilità penali

Verona, 15 ottobre.
È, senza dubbio, compito assai gravoso per i giudici quello di orientarsi nel dedalo delle argomentazioni tecniche che da quattro giorni (e siamo appena all'inizio) si intrecciano, si accavallano, si arruffano intorno al “perché” della sciagura di Ribolla.
Il processo si muove su un terreno di per sé critico, infido e cedevole, colmo di zone ancora buie.
Si avanza, come già si è detto, per congetture, a cominciare dalle perizie d'ufficio: un'intera catasta di documentazioni, di analisi, di statistiche, di rilievi, di grafici, ad accumulare la quale ga lavorato per due anni e più una imponente schiera di scienziati, specialisti dei vari rami che il problema investe: chimica, fisica, medicina legale, balistica e, naturalmente, ingegneria mineraria.
Sappiamo su quale quesito gli esperti dovevano pronunciarsi: grisù o gas di distillazione? Nel primo caso, nessuna responsabilità avrebbe potuto attribuirsi alle iniziative dei dirigenti e dei tecnici di Ribolla. Il grisù non tiene risaputamente conto di certe umane, anche attentissime, misure profilattiche. Esplode quando gli fa comodo, profittando di circostanze troppo occasionali e incontrollabili per poter essere addebitate all'organizzazione.
Fatalità, insomma.
Nel secondo caso, faccenda assai diversa. I gas di distillazione, se in una miniera si producono e sostano, è perché qualcuno, per incuria o per sbaglio, consente loro di prodursi e sostare. Lo stesso dicasi, con le dovute aggravanti, nella eventualità che tali gas vadano a mescolarsi con altre sostanze – vedi la polvere di carbone – fino a formare una miscela esplosiva.
Qualora poi, vagando per i sotterranei, questa miscela esplosiva dovesse entrare a contatto – sempre per incuria, per sbaglio o per distrazione – con correnti d'aria surriscaldata, dovute, mettiamo, a un incendio affrontato con scarsa sollecitudine, il disastro è il meno che possa succedere. Più che prevedibile, sarebbe, si può dire, un disastro preventivato.

Il tallone di Achille
Ora, è proprio questo in sostanza il responso dei periti. “Gas di distillazione”, essi finirono col precisare: quindi incuria, quindi responsabilità penale. Ciò nonostante, come dicevamo, l'esame delle perizie non rappresenta quella solida piattaforma su cui si possa da parte dell'accusa menar colpi decisivi e sbrigativi. Le indagini scientifiche, condotte e illustrate con infinito scrupolo, non conducono purtroppo a diagnosi categoriche. Queste indicano, è vero, nei gas di distillazione l'origine del disastro, escludendo nel contempo il grisù: non in base però a una matematica certezza, bensì in base ad un calcolo, altrettanto matematico, ma meno sicuro, di probabilità. Dimodoché: “... pur risultando possibile – si legge in questa perizia a proposito del grisù – questo caso può assai verosimilmente escludersi”. Sono parole testuali.
Nessuna meraviglia, dunque, che ancora si torni a portare sul tappeto una questione che pareva già accantonata e superata. Nessuna meraviglia che gli imputati insistano a parlare di grisù. Il grisù è rimasto il tallone di Achille di questo annoso e scabroso procedimento giudiziario.
Permanendo scoperto il quale, una accusa riguardo alle deficienze e alle negligenze tecniche è destinata a passare in secondo piano: a uscire, anzi, dal campo giudiziario penale per entrare in quello, più modesto, delle contravvenzioni. Perché diversamente possa accadere, occorre dimostrare che fu proprio quella serie di “infrazioni” la causa o la concausa della tragedia. Gli imputati lo negano. E oppongono, alla schiera dei periti di ufficio, un non meno agguerrito esercito di consulenti. Uno scontro è imminente.

Il quinto imputato
Nel frattempo, nella seduta odierna, il compito di rintuzzare la tesi dell'accusa è toccato al signor Tullio Marcon, imputato numero cinque, nella sua qualità di capo servizio principale della miniera di Ribolla. Quinto imputato solo in ordine di successione, poiché è a lui, più immediatamente di ogni altro, che si fanno risalire le responsabilità del disastro.
Era, infatti, il geometra Marcon che aveva in pugno in quel periodo le redini della situazione. Nella sua posizione di aiutante diretto, di “braccio destro” dell'ingegner Padroni, era lui che in pratica, pur non godendo ufficialmente della qualifica, sbrigava in assenza del principale le mansioni di “vice”.
E tale rimase nei giorni in cui, ammalato Padroni, venne inviato a sostituire l'ingegnere Pellegrini. Nuovo dell'ambiente, l'ingegner Pellegrini svolse, né poteva far diversamente, un ruolo soltanto rappresentativo. Di fatto il direttore di Ribolla, al momento della sciagura, era Tullio Marcon. Lui sapeva quali lavori si dovevano cominciare, quali portare a termine, quali zone far sorvegliare e quali no.
In verità, la sentenza istruttoria lo accusa di aver combinato un sacco di guai, fra cui quello di aver fatto invertire, a un certo momento, un circuito di ventilazione senza tener conto che l'aria corrotta, prima di essere espulsa all'esterno, avrebbe così finito per incrociarsi con le masse di fumo che si sprigionavano dal settore
in cui era in corso un falò; e di non aver provveduto, in vista della pericolosa eventualità, a fare sgombrare la miniera di tutti gli operai che non fossero quelli della squadretta anti – incendio.
Ma Tullio Marcon, loquace e battagliero, ha respinto queste accuse con una pressoché interminabile serie di dettagliatissime e complicatissime delucidazioni. Al termine delle quali, il presidente ha rinviato l'udienza a lunedì.

MARIO CARTONI

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Per gentile concessione di Roberto Calabṛ