LUMINI NEL BUIO -Ribolla: anni '30 e dintorni-

 
 

Ricordi sfusi

 

             

    

Arrivi e partenze

 

C’era sempre movimento, e rumore, davanti al deposito delle locomotive. La “Ribolla” e la “Montemassi” lavoravano anche per la vecchia “Meda”, che riposava da qualche tempo nel fondo buio della rimessa. Sbuffi, sferragliamenti, fischi, rifornimenti d’acqua e di carbone, arrivi e partenze.

Arrivi, come quello d’Argenta, una giuncarichese che andava a lavorare alla cernita. Fazzoletto scuro annodato intorno alla testa, un’espressione triste sulla faccia pulita, salutava mia madre e Isola Panti prima di avviarsi al lavoro.

Partenze, come quella d’Argenta, la stessa giuncarichese al termine della sua giornata di lavoro alla cernita. Fazzoletto annodato intorno alla testa, la faccia e le mani nere come il carbone che aveva maneggiato per otto ore, e che sembrava non voler lasciare prima di averlo accompagnato alla stazione di Giuncarico.

 

 

 

Giulio Sansoni, detto Palle

 

Giulio Sansoni, infermiere in Ribolla, strappatore di biglietti al cinema domenicale, milite scelto della "Milizia volontaria per la sicurezza nazionale", sotto modi burberi celava bontà d’animo e grande simpatia. Noi ragazzetti non ancora in età d’avventure amorose, seduti sui gradini del Parco della rimembranza, trovavamo con lui, nelle sere d’estate, il nostro passatempo nell’attesa del rientro a casa, inderogabile entro le dieci e mezza.

 Analfabeta impenitente, faceva di tutto perché gli altri non se n’accorgessero. Spesso cercava di dare ad intendere di saper leggere, ma talvolta la fortuna non gli sorrideva, e il giornale si apriva a rovescio davanti ai suoi occhi. A chi glielo faceva notare rispondeva, imperturbabile, che tutti sarebbero stati capaci di leggerlo tenendolo per il verso giusto.

Una sera qualcuno gli mise perentoriamente davanti un foglio da firmare. Rifiutò sdegnato dicendo: "La Milizia un firma!!"

Era un avventuriero dell’immaginazione, inventava realtà inverosimili in cui lui stesso finiva per credere. Per noi, che l’ascoltavamo a bocca aperta, le sue parole erano vangelo, e rimasero incontrovertibili fino a quando qualcuno non ci aprì gli occhi, mettendoci sull’avviso. Una vera cattiveria, simile a quella che compiono i padri quando cancellano dall’animo dei loro figli la favola bellissima della Befana. Lo fanno solo perché invidiosi di non poter più vivere i sogni come li vivono i bambini. Continuammo a sperare che fosse vera la storia secondo cui, ferito alla testa da una scheggia di proiettile da mortaio durante una cruenta battaglia combattuta nella prima guerra mondiale sulle rive del Piave, fu inevitabile sostituirgli un pezzo della calotta cranica con una piastra d’argento. C’è rimasta nella memoria la commozione sincera con la quale ci raccontava di quella volta quando, in visita al fronte dopo la liberazione di Trento, Re Vittorio Emanuele III, non appena lo vide, gli andò incontro e lo abbracciò dicendogli: "Caro Sansoni, qui ci siamo e qui ci resteremo!!"

Tornammo a sederci attorno a lui sui gradini del Parco della rimembranza anche dopo aver saputo che ci raccontava delle “storie”. Subdolamente ipocriti, gli ponevamo domande per rispondere alle quali s’infervorava stimolando ancor di più la sua immaginazione. Sono sicuro, però, che la nostra non era cattiveria. Facevamo di tutto per credere, almeno quanto lui, a quello che diceva.

Nell’estate del ’45, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, una sera non venne al consueto appuntamento. Quando si rifece vivo, dopo un paio di giorni, alla nostra richiesta di spiegarci il motivo della sua assenza ci rispose che siccome c’era stato, dalle parti di Milano, un grosso incidente stradale con parecchi morti e feriti, aveva ricevuto una telefonata dal Ministro dell’interno in persona il quale, dopo averlo pregato di intervenire sul posto, aveva mandato un elicottero per prelevarlo. L’elicottero era atterrato a notte fonda nel campo sportivo e l’aveva portato direttamente all’ospedale milanese nel quale erano stati ricoverati i feriti. Qui giunto, aveva subito cominciato a collaborare con i chirurghi, impegnati a riattaccare mani, piedi, gambe e braccia a tutti coloro che ne avevano subita traumaticamente l’amputazione. Inutile dire che quei poveracci si raccomandavano soprattutto a lui.
Giulio Sansoni. Quante mamme soffiarono a perdifiato sui gomiti o sulle ginocchia dei loro figli sbucciati, mentre lui, pulendo le ferite con il cotone imbevuto nell’alcole impietoso, scagliava parole di fuoco contro il malcapitato di turno: “E un piange’, bischeraccio! Ma che razza d’omo sei!”

Se non ci fosse stato, qualcuno avrebbe dovuto inventarlo.

 

 

 

La cicogna

 

Non era mica facile, nascere a Ribolla. In quel povero paese mancava tutto, non c’era nemmeno la cicogna. O meglio, la cicogna c’era, ma stava a Montemassi e non aveva le ali per volare svelta fino a laggiù. Prosaicamente chiamata “levatrice”, era una candida vecchina alla quale il Comune di Roccastrada aveva affidato il compito di assistere le partorienti della condotta medica di Montemassi, e, già che c’era, anche quelle di Ribolla.

Quando una ribollina “in stato interessante” si rendeva conto che il suo dolce fardello aveva una gran fretta di venire al mondo, la prima cosa da fare era quella di mandare a prendere la candida vecchina. Nella stalla della Montecatini Ulisse Cillerai (di solito era lui) attaccava un cavallo ad un barroccino e a lesto trotto si avviava verso Montemassi. Intanto era messa in stato d’allarme Tonina, la cicogna di riserva, la quale, vantando una certa esperienza pratica in fatto di preparazione al parto, andava subito a casa della partoriente per predisporre tutto quanto sarebbe servito alla titolare.

La ricordo bene, la levatrice che veniva da Montemassi. La vedevamo abbastanza spesso, a Ribolla. Aveva capelli bianchissimi, malgrado la sua faccia fosse ancora abbastanza rosea e fresca, di persona non molto avanti negli anni. Ma si sa che a quei tempi bastava averne cinquanta, per essere considerati vecchiarelli.
Ricordo anche che arrivava sempre in tempo per fare onore al suo titolo d’ostetrica, che significa appunto “colei che sta davanti” (alla partoriente). Merito questo non solo suo, ma anche d’Ulisse Cillerai, del cavallo, di Tonina, e della Direzione della Miniera che non poneva ostacoli di sorta acché le cose andassero in tal modo, e se ne fregava altamente del fatto che il nuovo ribollino che stava per nascere fosse figlio di un operaio o di uno di quelli che stavano nel grande giardino, blindato da sbirri e cani feroci, che nessuno vide mai.

 

 

 

La mattina di Capodanno
 

“Buon giorno e buon anno! C’è niente per quest’anno?” I bambini di Ribolla si presentavano così, la mattina d’ogni Capodanno. A gruppetti di due o tre per volta, bussavano allegri a tutte le porte, sicuri che nessuno avrebbe negato loro la fettina di panforte, il cavalluccio o le caramelle, già preparati sui tavoli d’ogni cucina. “Parate le mani”, diceva mia madre, cercando di fare parti uguali per tutti. Le loro piccole conche accoglievano quanto vi cadeva dentro, mentre gli occhi lanciavano sguardi crepitanti di gioia. Il “grazie” arrivava sempre di schiena, quando già correvano verso il prossimo rifornimento.
Sul tavolo della nostra cucina, oltre a ciò che era destinato alla razzia dei bambini, c’erano anche un paio di fiaschi di vino. Chissà per chi erano.

 In lontananza si sentiva suonare la “musiha”. Torello Sillari, che ne era il capo, guidava i suonatori per tutto il paese eseguendo i pezzi del suo repertorio, e dedicando brani scelti alle persone più rappresentative, tra le quali figurava anche mio padre, che in passato aveva diretto la “musiha” per diversi anni. La banda si fermava sotto casa, eseguiva con scrupolo ed esuberante sicurezza il pezzo dedicato, e non appena era stata emessa l’ultima nota, il Sillari faceva un passo avanti e declamava: “Buon giorno e buon anno! C’è niente per quest’anno?” Allora scendevano i fiaschi di vino. Ecco per chi erano.

 

 

 

Il pesciaio di Castiglioni

 

Il pesciaio veniva una volta alla settimana, il Venerdì, da Castiglion della Pescaia. Aveva una motocicletta tutta scassata, attaccata chissà come ad una specie di carretto sul quale stavano le cassette del pesce. Alle Centurie si fermava davanti al vecchio lavatoio, e aspettando che arrivassero le massaie, lanciava a gran voce i suoi richiami, dai quali si apprendeva ogni qualità del suo pesce, prima fra tutte quella che lo definiva “bello vivooo!!” Quando poi le comari erano ormai numerose in capannello, urlava la sua esortazione preferita: “Donne vendetela, che la tenete affà! Viene l’estate, puzza di baccalà!”

I puristi, e i puritani, non me ne vogliano. Ho riportato solo, alla lettera, quanto diceva il pesciaio di Castiglioni quando, negli anni ’30, veniva ogni Venerdì a Ribolla, sempre che non piovesse a diluvio universale.

 

 

 

Il ponte della Follonica

 

I ragazzotti di Ribolla non avevano bisogno di andare fino al ponte della Bruna, per fare il bagno. C’era da fare troppa strada, ci voleva almeno la bicicletta, e non tutti ne possedevano una. La Follonica era molto più comoda, subito dopo il Reparto. Alcide e “Magnolino” Murgioni, Lalo Lampis, Engelze ed Enzo Falorni non avevano da fare altro che uscire dalla porta di casa. A quei tempi sotto il ponte si era formata una buca piuttosto profonda, che era quanto di meglio occorreva per buttarsi in acqua. Nei mesi d’estate, verso sera, dopo che a quelli del Reparto si erano aggiunti i ragazzotti delle Camerate e Casenove, il gruppo era sempre abbastanza nutrito. I mucchietti di vestiti buttati a casaccio lungo il parapetto, nudi come vermi e del tutto sconsiderati, si buttavano a testa in giù provocando schizzi che arrivavano fino sulla strada, insieme alle loro urla divertite.

Sul ponte ne restavano pochi, in veste di spettatori. Guarda caso erano sempre delle Centurie e dintorni. Venzo Conti, Enzo Niccolaini, Lido Lucchesi e, insieme con qualcun altro, io stesso, che avevo un sacro terrore dell’acqua profonda, ma soprattutto temevo le reprimende di mio padre, che certe volte erano molto più burbere che affettuose.

 Tra quelli che dopo ogni tuffo sguazzavano nell’acqua, ce n’era uno che ogni tanto smetteva di agitarsi e si metteva a fare il morto a pancia in su, con le mani unite dietro la nuca e il pistolino schierato in assetto di guerra. Era Gastone Guscelli, uno dei più grandi, massimo quindici anni, il quale, oltre che possedere la sconsideratezza dei suoi amici, era anche piuttosto spudorato. Sul ponte passavano spesso donne del Reparto, per via dei panni stesi da quelle parti, ed egli cercava a modo suo di richiamarne l’attenzione: “Bionda! S’ha a vedé quanto l’è fonda?” Le reazioni delle interessate, a seconda di cosa passava loro per la testa in quel momento, andavano dalla più totale indifferenza ad una bella risata aperta e fragorosa, qualche volta sprezzante. Non mancavano nemmeno le raccomandazioni: “Vedete piuttosto d’un’affogà, ‘mbecilli!” Ma la risposta che una volta diede, schietta e sferzante, una di loro che oltretutto aveva i capelli color del carbone, fu memorabile: “Senti, strullarello! Se vòi dì l’acqua, huant’è fonda lo so già. Se invece vòi dì qualche altra hosa, con quello strumento he ti ritrovi che ci vòi misurà. N’ho visti di meglio!”
Gastone, che di sicuro non si riferiva all’acqua, ci rimase un po’ male, quel pomeriggio.

        

Vilmo Radi

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