LA LEGGENDA DEL CAMPO DA TENNIS

 
 

 
In questa foto è ritratto il campo da tennis di Ribolla. Sorto verso la fine degli anni quaranta, faceva a gara con il campo di palla a volo, di poco più vecchio, a chi aveva meno frequentatori. Quello di palla a volo si trovava a fianco del campo di calcio, e quest'ultimo sì che era sempre pieno di giocatori, o presunti tali, e di gente che guardava partite o allenamenti.

 Del resto, su cento ribollini amanti dello sport, novantotto s'interessavano di calcio, e i rimanenti due si dividevano equamente tra tennis e palla a volo. Il ciclismo era un caso a sé: la metà di quei cento litigava con l'altra metà prima per Binda e Guerra, e poi per Bartali e Coppi. A partire dal momento in cui cominciò a far comodo darlo ad intendere, in altre parole dopo la disgrazia del '54, il campo da tennis fu presentato come una delle tante vergogne di cui il padrone si macchiò per mettere in atto le sue discriminazioni ai danni dei più deboli. Scrittori, giornalisti, arruffapopolo d'ogni genere, in buona o malafede, sostennero (e continuano imperterriti a sostenerlo) che esso era riservato solo a dirigenti e impiegati.
Quell'affermazione, oltre che essere smaccatamente strumentale (va tutto bene, se serve a far apparire il bieco padrone sempre più perfido e malvagio), fu del tutto ridicola (e a maggior ragione lo è oggi, a più di cinquant'anni di distanza), anche e soprattutto perché si sovrapponeva, con la sua insulsaggine, al tragico contesto della sciagura del 4 Maggio. 
L'interesse che destava il tennis nella Ribolla a cavallo degli anni '50 era talmente insignificante che per contare le persone che praticarono quel campo durante i pochi anni nei quali rimase agibile basterebbero le dita di tutt'e due le mani di un uomo. Vogliamo aggiungere anche quelle di un piede? Aggiungiamole pure, ma non tutte. E queste poche persone potevano appartenere a tutte le caste: dirigenti, impiegati ed operai, questi ultimi anche nella sottocategoria dei manovali. Non c'era alcuna preclusione. Nessun cartello con su scritto "Vietato l'ingresso agli operai", né "feroci cani lupo" pronti a sbranare (quelli, per intenderci, che le cronache vogliono messi dal padrone a guardia di quell'inesistente, fantomatico "giardino" abitato dai signori impiegati), né tanto meno sgherri che, improvvisatisi cecchini, abbattevano operai e/o figli d'operai a fucilate, sparando da una finestra del "Palazzo" al loro ingresso in campo.
Checché se ne dica, chiunque fosse voluto andare a giocare avrebbe potuto farlo, anche se non in tutte le ore del giorno. Infatti il direttore (quello più perfido e malvagio di tutti), osava riservarsi il campo, per lui e per qualche dirigente il cui orario di lavoro si protraeva fino al tardo pomeriggio, per un paio d'ore e nemmeno tutti i giorni. E così facendo, sebbene la cosa potesse sembrare perfettamente giusta e normale, secondo i manovratori poneva in essere un comportamento inqualificabile e vessatorio.
Ho detto "chiunque fosse voluto andare", ma guarda caso vollero andarci veramente in pochi. I "ragazzi del villaggio, figli dei minatori", non stavano "ore ed ore", come degli ebeti, "aggrappati alla rete di recinzione" - che bel quadretto evocativo di lager nazisti (non di "gulag" sovietici, quelli non sono mai esistiti) - a guardare "invidiosi chi giocava con le racchette e la pallina". Oltretutto poteva essere pericoloso. E se il subdolo, abominevole capo delle guardie avesse avuto l'ordine di mettere sotto tensione la rete? 
I frequentatori del campo furono quindi pochissimi. E per quale motivo? Semplicissimo: oltre al fatto che i ribollini non sapevano proprio cosa farsene, c'era da considerare che, specialmente a quei tempi, il tennis era uno sport d'elite che esigeva, per praticarlo, un equipaggiamento il cui acquisto costituiva per chiunque, operaio o impiegato, un impegno economico non indifferente. Il problema non sarebbe sorto se tale equipaggiamento, facendo chiaramente parte di un diritto, fosse stato a carico della Società, la quale invece si limitava, avida e taccagna com'era, a fornire, gratis per tutti, il campo da gioco. E solo per bieco paternalismo, beninteso.
Il problema era di così grande consistenza, che si corse il rischio che quei poveri operai, con in testa problemi di ben altro genere e di ben altra importanza, venendo improvvisamente a sapere che il torvo padrone, oltre alla quotidianità del pane, aveva negato loro anche quella del tennis, feriti nell'orgoglio, lo sguardo corrucciato, e aggrottate le sopracciglia ad esternare lo sdegno più grande per tale intollerabile sopraffazione, marciassero compatti attorno al Palazzo, scandendo slogan inneggianti al paradiso sovietico nel quale, è risaputo, ogni bambino proletario (maschio o femmina che fosse) è sempre nato, oltre che con le palle, anche con la racchetta da tennis. Per la verità le cronache non hanno mai riferito di questa specie di girotondo. Ma non hanno riferito nemmeno di tutti coloro, e furono tanti, che ritenendo quelle miserevoli farneticazioni una vera e propria offesa alla loro intelligenza, le hanno seppellite nel ridicolo.

Fra le cause della mancata frequenza non bisogna infine dimenticare che anche a Ribolla c'erano le ragazze (e che ragazze), e che anche ai giovani maschi ribollini piaceva passare il tempo facendo, non solo di sera, innumerevoli passeggiate "all'ombra delle fanciulle in fiore". Testimoni ne erano le strade intorno al Palazzo, il greto del Raspollino, della Follonica, la stradina sterrata che portava al Ghiaccialone, tutti i posti insomma andavano bene (purché non fosse il campo da tennis) per scambiare, diciamo così, due chiacchiere con l'amichetta.
Di notte, invece, erano complici ancora quei rari lampioni ai quali non c'era nemmeno bisogno di rompere le lampadine per impedire che facessero luce. 
Altro che tennis.
E per finire al modo del Principe Antonio de Curtis, in arte "Totò": "Ma mi faccia il piacere!"


Vilmo Radi

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