LUMINI NEL BUIO -Ribolla: anni '30 e dintorni-

 
 

TUTTI AL CINE

 

Poco prima del Reparto la "Montemassi", di ritorno da Giuncarico, faceva sentire il suo fischio preannunciando l'imminente arrivo alla stazione, e dopo un paio di minuti si fermava sbuffando a fianco del deposito, sul binario più vicino a casa mia. A me piaceva starmene seduto sul muretto della banchina e guardare i macchinisti Attilio e Gigione che, prima di effettuare, con l'aiuto della "Ribolla", le manovre per lo sgancio e la sistemazione nei binari opportuni dei vagoni ormai vuoti, scaricavano tutto ciò che era stato prelevato alla stazione di Giuncarico. Dal lunedì al venerdì non c'era, almeno per me, niente di particolare. Ma il sabato le cose cambiavano. Tra le merci scaricate dovevano esserci due o tre recipienti metallici rotondi, piuttosto piatti, di colore nero, il cui contenuto avrebbe consentito a me e ad altre decine di ribollini di trascorrere la sera successiva, quella della Domenica, in modo completamente diverso da tutte le altre. 

C'erano, in quella specie di padelle, le pellicole che sarebbero state proiettate l'indomani, alle nove di sera, nel cinema del Dopolavoro. Una volta che le avevo individuate, mi rimettevo tranquillo a seguire i movimenti di Gigione con la speranza, che spesso mi sorrideva, di essere caricato di peso su 
una delle due locomotive e autorizzato ad azionarne il fischio. 

Poteva anche succedere che, per qualche disguido con le Ferrovie o con il distributore di Grosseto, le padelle non arrivassero. In questo malaugurato caso Gigione, perché non andasse delusa l'attesa dei ribollini, doveva tornare a Giuncarico la mattina o addirittura il pomeriggio della Domenica per fare in modo che fossero a Ribolla entro le nove di sera. 

Giunte a destinazione, specialmente se con un certo anticipo, solo alcuni privilegiati riuscivano a conoscere il titolo del film e di conseguenza a renderne partecipi amici e conoscenti. La maggior parte di coloro che sarebbero andati al cine erano completamente all'oscuro di ciò che avrebbero visto. Le pressanti domande alle quali i genitori venivano sottoposti rimanevano il più delle volte senza risposta. Qualche babbo, pur di levarsi di torno il figlio rompiscatole, diceva il primo titolo che gli veniva in mente; ricordo che il mio, che non sapeva nulla anche se sarebbe stato lui a proiettare le pellicole, alla mia richiesta "babbo, che c'è stasera al cine?" con scarsa fantasia rispondeva quasi sempre "la donna gnuda!".

La sera, poco dopo le otto, le strade del paese cominciavano ad animarsi, e dal Reparto, dalle Centurie, dalle Camerate e Casenove, gruppetti di persone si avviavano allegramente verso il Dopolavoro. Famiglie intere, padri, madri, nonni e figli. E anche sedie. Qualcuno si portava da casa anche quelle.

Alla cassa Dino Iori consegnava il biglietto, sulla porta della sala Giulio Sansoni ne strappava la metà, e tutti a sedere, sotto (platea) o sopra (galleria).
Il trepestio e il rumore delle sedie smosse lasciavano lentamente il posto ad un leggero brusio che prendeva timidamente consistenza man mano che si avvicinava l'ora d'inizio, per trasformarsi, alle nove, in un vociare che, ad orecchie delicate, avrebbe potuto anche sembrare piuttosto scomposto e impregnato d'impazienza. Qualcuno, qua e la per la platea, cominciava a prendersela con l'operatore, in 
cabina di proiezione. " Ovidiooo!! Attacca!" 

Ma Ovidio non poteva attaccare fino a quando il Direttore della Miniera con la sua famiglia non aveva preso posto nella prima fila del palco. Era questo un segno di rispetto, una sorta di privilegio riservato alla persona che, a quei tempi, era considerata la massima autorità del paese. Nessuno l'aveva imposto, nessuno lo pretendeva, tanto meno l'ing. Mori Ubaldini, allora in carica, che oltre tutto, le rare volte che era in ritardo, non lo era per più di qualche minuto.

Il buio in sala scendeva un istante prima che si accendesse il fascio di luce che illuminava il telone laggiù in fondo, mentre il ronzio della macchina copriva, smorzandolo, il brusio degli spettatori. Ogni tanto sullo schermo le immagini cominciavano a correre velocemente verso l'alto provocando, oltre 
ad un fastidioso effetto di sfarfallamento, un poderoso coro di proteste all'indirizzo dell'operatore: "Quadro! Ovidio, quadro!" Povero Ovidio, in quella cabina, un bugigattolo che a fatica conteneva il mastodontico proiettore, faceva un caldo infernale ed era una sofferenza doverci entrare ogni volta che 
c'era da cambiare la bobina, o da porre rimedio ai frequenti strappi della pellicola. Nel 1936 cedette il posto ad Albore Bronzoni, sul quale si riversarono, da allora in poi, gli urli e gli improperi della gente: "Alboreeee! O pelo rosso! Quanto ti ci vòle a riattaccalla!"

Fino a quando il cinema fu muto, durante la proiezione la gente leggeva in coro, bisbigliando, i sottotitoli, e si lasciava prendere da incontenibile entusiasmo quando, se l'eroe era il grande cow boy Tom Mix (da tutti detto Tommìcche), arrivavano i nostri. Frequenti invece erano i colpi di tosse e le 
soffiate di naso quando la diva del muto, sedotta e abbandonata, esternava la sua disperazione smaniando come pazza e aggrappandosi disperatamente prima alle ginocchia dell'amante traditore in un estremo tentativo di trattenerlo, e infine, ormai senza speranza, ai pesanti drappi di tessuto appesi davanti alle finestre.

Nel mio ricordo, se il trascorrere del tempo non l'ha trasformato del tutto in immaginazione, c'è, sistemato nella buca sotto il tendone, un fantasma che strimpella un pianoforte durante le scene strappacuore. Non so dargli un volto, ma lo vedo, uomo o donna che sia, mentre di spalle, ombra scura, 
dondola la testa ad ogni accordo non sempre intonato, forse per colpa dello strumento.

Infine tutti a casa, con i bambini piccoli addormentati in braccio ai genitori, e la sedia di cucina che faceva ritorno, anch'essa, tra le pareti domestiche.
Quanto a me, appena a letto, già mezzo addormentato, fra uno sbadiglio e l'altro riuscivo ancora ad esprimere una certa delusione: "Babbo, però anche stasera io un'ho visto punte donne gnude".

"Dormi, dormi", era la risposta.


Vilmo Radi

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