RIBOLLA
UNA VOLTA ERA UN VILLAGGIO MINERARIO
LA SCIAGURA ( 4 maggio 1954)
scritto da Erino Pippi.
E la fine non si fece attendere.
Tutto ad un tratto, una mattina, verso le otto, la sirena si mise ad urlare e quando lo faceva al di fuori degli orari che segnalavano il cambio del turno di lavoro era un segnale di pericolo e, dato che era atteso da tanto tempo, questa volta era un segnale di morte.
E non smetteva più, chiamava a raccolta gli abitanti del Villaggio, richiamava a lavoro gli addetti delle squadre di soccorso, anche quelli dei turni a riposo.
- E' scoppiato il gas, è scoppiato il grisou al pozzo Camorra…
Un convulso via vai di persone, di auto della miniera, di biciclette, tutti si muovevano in direzione del Pozzo Camorra.
- Come è successo ?
- Quando è successo ?
Dopo un'ora già si parlava di decine di morti: due e forse tre compagnie del primo turno erano state investite dal grisou, il micidiale gas che a contatto del fuoco esplode e provoca una seconda deflagrazione con la polvere del carbone e distrugge tutto.
- Chi ci lavora nel primo turno al pozzo Camorra ? - e si cominciavano a fare i primi nomi.
- C'è mio marito.
- C'è mio figlio.
Dopo alcune ore ritornarono in superficie i minatori della squadra di soccorso che erano scesi dopo l'esplosione. Si mettevano le mani nei capelli, alcuni piangevano, i loro musi neri, solcati dalle lacrime, annunciavano la tragedia.
- Sono tutti morti, è un cimitero, ci vorranno giorni per tirarli fuori. C'è il pericolo di frane e le gallerie sono piene di gas e di fumo nero. -
Era successo al livello meno 260, il fuoco fuoriuscito dalla galleria 31 aveva fatto esplodere il gas. La circolazione dell'aria era stata invertita, perché una ventola non funzionava. Tutti sapevano che il fuoco del cantiere 31 veniva continuamente isolato con tappi di argilla perché non filtrasse aria che lo avrebbe alimentato di ossigeno. Il fuoco aveva abbattuto la protezione ed aveva invaso la galleria. L'inversione temporanea del circuito di aerazione aveva permesso ad una lingua di fuoco di entrare in contatto con il gas grisou, ormai miscelato in proporzioni esplosive. E successe quello che i minatori temevano.
- Ingegner Padroni assassino!- gridava la folla inferocita accusandolo di aver provocato la sciagura ormai da qualche tempo annunciata.Era il 4 Maggio 1954.
La più grande sciagura mineraria del dopoguerra in Italia!La Società Montecatini non riuscì nemmeno ad organizzare i soccorsi. A differenza della Commissione Interna, che aveva ripetutamente denunciato il pericolo di frane e scoppio di grisou, la Direzione della Miniera non aveva preventivato una catastrofe di tale portata, anzi qualche incidente, anche mortale, doveva averlo messo in preventivo, perché avrebbe accelerato le pratiche per la chiusura della miniera. Mancavano gli elenchi dei minatori che componevano le squadre che lavoravano nel pozzo Camorra, non c'erano sufficienti estintori e respiratori per le squadre di salvataggio che prontamente erano disposte a calarsi in miniera. Dovettero aspettare delle ore prima che arrivassero i Vigili del Fuoco e le squadre di pronto soccorso dalle altre miniere del Gruppo con le attrezzature adatte per calarsi in miniera e superare le difficoltà per portare i primi soccorsi e tentare di salvare la vita di qualche loro compagno, ma trovarono solo morte e distruzione: gallerie franate, piene di ossido di carbonio, calore insopportabile ed i primi cadaveri.
Il Villaggio si riempì di giornalisti, personaggi politici, autorità, chi per dovere, chi per curiosità.
In molte case del Villaggio la morte aveva già tracciato la sua croce.
Alle cinque del pomeriggio furono estratti i primi morti, irriconoscibili, perché bruciati dall'esplosione.
Portati in superficie in barella, protetti da coperte o lenzuoli, venivano provvisoriamente collocati nel grande garage della Soc. Montecatini: ustionati, bruciati, morti per asfissia o per intossicazione. Il calore era arrivato a 2.000 gradi.L'opera di riconoscimento fu impietosa e difficile, durò alcuni giorni, perché molti erano carbonizzati e resi irriconoscibili se non da qualche oggetto personale, come orologi o anelli. Gli amici cercavano gli amici e molti i propri familiari. Alcuni svenivano a cospetto del proprio congiunto riconosciuto.
Ai morti identificati veniva attaccava un cartello con il nome e, a volte, con il semplice soprannome.
Sembrava un cimitero scoperto. Poi chiusi nelle bare venivano portati nella sala del Dopolavoro:
- 40 in fila, uno a fianco dell'altro.
- 43 alla fine della conta.La sala del Cinema divenne presto una immensa camera ardente, le bare allineate una dopo l'altra, distanziate dallo spazio appena necessario per permettere ai familiari di vegliare il loro defunto e alle donne dell'Associazione "Amiche dei Minatori", che si riconoscevano dal bracciale rosso listato a lutto che portavano al braccio, che offrivano assistenza, non solo a parole, ma tazze di tè e camomilla con qualche biscotto per sostenere soprattutto i familiari delle vittime provenienti dalle Marche, dalla lontana Calabria e dalla ancor più lontana Sicilia.
Una sposa calabrese abbracciava, piangendo, la bara dove era rinchiuso suo marito. Un bambino non ancora colpito dal dolore della perdita del padre si distraeva con l'elmetto posto sopra la bara. Due anziani, marito e moglie, si tenevano per mano, davanti alla bara del figlio bruciato dal gas del pozzo Camorra.
La disperazione dei parenti, il pianto dei bambini e delle donne invase l'intero Villaggio.
Ovunque capannelli di persone che inveivano contro la Società Montecatini ed i suoi Dirigenti, che per conseguire il dannato "profitto " avevano abbandonato ogni norma di sicurezza e creato le condizioni ideali per causare lo scoppio del gas. Si cercava di portare conforto a chi aveva perduto un congiunto: scene raccapriccianti fra vedove da appena un'ora con altre che erano vedove già da qualche anno. Si abbracciavano per poter piangere l'una sulla spalla dell'altra. E tutti chiedevano giustizia!
Le donne del Villaggio portavano conforto a quelle arrivate da lontani paesi che i loro mariti avevano abbandonato per un lavoro in miniera; ora, il loro uomo, vi sarebbe ritornato dentro una bara, perché nel Villaggio Minerario ancora non esisteva il Cimitero per dare una degna sepoltura ai minatori uccisi dalla miniera. Per una S.p.A. come la Montecatini essi, i minatori, avevano un valore solo da vivi, per essere sfruttati, da morti che se ne tornassero da dove erano venuti.
Persero la vita 43 minatori che scendevano tutti i giorni nelle viscere della terra per assicurare una decorosa esistenza ai propri figli, alla loro donna, ai loro vecchi genitori.
Nel villaggio aumentò di colpo il numero delle vedove: più di quaranta e quello degli orfani superò i cento.Queste donne sembrano tutte uguali, vestite di nero, le più anziane con un fazzoletto, anch'esso nero, a coprire i capelli, legato dietro la nuca. Il colore del vestito non era nero per la circostanza della sciagura, le donne del Villaggio e quelle provenienti dal meridione lo indossavano sempre, per tutto l'anno, perché un lutto da rispettare, nelle famiglie dei minatori c'era sempre e comunque ci sarebbe stato nell'immediato
futuro. Chi lega la propria esistenza alla Miniera impara a convivere anche con la morte.L'ing. Padroni, al servizio della Società Montecatini, per chiudere la Miniera aveva causato un disastro!
Contro di lui era stato emesso mandato di cattura, ma era già fuggito. Non aveva più nulla da fare a Ribolla: la miniera sarebbe stata chiusa, l'ultimo atto era costato la vita a quasi cinquanta minatori. Se si fosse fatto vedere nei pressi della miniera o per le vie del Villaggio sarebbe aumentato il numero delle vittime: il clima era adatto per una lapidazione.Le donne dell'Associazione "Amiche dei Minatori", organizzarono l'assistenza ai familiari che arrivavano dalla lontana Calabria, dalla Sicilia e dalle Marche, trovandogli anche il posto per dormire, ospiti delle famiglie del Villaggio, disperate come loro colpite da questa tremenda sciagura.
La Società Mineraria si fece da parte, incapace della pur minima reazione, come succede ai colpevoli colti sul fatto. Prima però fece stampare dei manifesti che vennero però strappati un minuto dopo essere affissi, perché la Direzione della Miniera dava la colpa:
"A mera fatalità.
Forse ad una lampada difettosa.
Oppure ad un mozzicone di sigaretta."Altro che mera fatalità! I minatori e la Commissione Interna avevano, da tempo e con insistenza, denunciato i pericoli della coltivazione a franamento e l'assoluta mancanza delle più elementari norme di sicurezza, come una corretta circolazione dell'aria. " non vi deve essere accumulo di gas, la ventilazione deve essere sapientemente orientata nelle gallerie." Cosi dicevano le disposizioni di sicurezza del regolamento di Polizia Mineraria.
I Sindacati insorsero riproducendo, nei loro comunicati, le decine di denunce rimaste sempre senza risposta, non solo dalla Soc. Montecatini, ma dal Distretto Minerario e dal Ministero del Lavoro.Ma il Tribunale di Verona, dove il processo venne poi trasferito " per legittima suspicione " assolse tutti i padroni della Montecatini ( Dirigenti e tecnici ) " per non aver commesso il fatto ". Per i Giudici, i 43 minatori di Ribolla erano statu uccisi " da una tragica fatalità ".
Gli abitanti del Villaggio hanno sempre giudicata scandalosa questa sentenza.
Il giorno dei funerali, alla presenza di oltre 50 mila persone solo a Giuseppe Di Vittorio, segretario della C.G.I.L. venne consentito di parlare e lo fece accusando la Soc. Montecatini e le autorità competenti di strage premeditata.
Gli altri rappresentanti del Governo e varie autorità che erano venuti a fare, tardivamente, la loro comparsa, vennero sonoramente fischiati.La Miniera chiuse, la Montecatini se ne andò abbandonando tutto. Il Villaggio Minerario si spense come una candela senza più cera.
Scomparso il Villaggio Minerario, passati pochi anni, gli abitanti di Ribolla, temprati da decenni di dure lotte, ne ricostruirono un altro, non più Villaggio, ma un Paese, quello di oggi, dove la vita scorre tranquilla e serena, guardando al futuro, con tanti ricordi…..
Alcune pagine sono tratte da un racconto di Erino Pippi.