RIBOLLA
UNA VOLTA ERA UN VILLAGGIO MINERARIO
LE PRIME LOTTE DEI MINATORI
scritto da Erino Pippi.
Quel giorno, in piazza, infuriava uno dei soliti scontri fra minatori e Celere. Era stato indetto uno sciopero, di otto ore, per protestare contro la volontà della Direzione della Miniera di licenziare 180 minatori che risultavano in esubero, secondo le diminuite necessità di produzione.
Alcune centinaia di minatori erano radunati nel piazzale, davanti al Dopolavoro, per un comizio di protesta, che però non era stato autorizzato e così i celerotti, a bordo di una decina di camionette, manganelli in mano effettuavano il carosello lungo le strade del Villaggio per disperdere i gruppi, se formati da più di tre persone, bordando manganellate a tutti quelli che gli capitavano a tiro. Camionette della Celere a Ribolla.
I minatori si rifugiavano sui marciapiedi, dietro le piante, a cavalcioni sopra la staccionata che proteggeva il giardino e qualche volta lanciavano sassi in direzione delle camionette.
La Celere era un corpo di polizia quasi esclusivamente utilizzato per reprimere le manifestazioni dei lavoratori. I Carabinieri non davano affidamento nell'opera di repressione delle dimostrazioni di piazza, perché storicamente avevano buoni rapporti con la popolazione. Per questo venne creata la Celere, come corpo di polizia politica e subito utilizzata a Ribolla e Gavorrano, altro villaggio Minerario della Montecatini. Alcune camionette con una decina di poliziotti stazionavano sempre, giorno e notte davanti agli Uffici della Società Montecatini. Questa volta però erano arrivati rinforzi da Grosseto, comandati da un Commissario.
Le camionette, nel loro vertiginoso girare alzavano una nuvola di polvere perché la piazza era sterrata, il Commissario, con la pistola in pugno, in piedi, su una di queste Jeep urlava ordini insensati, sembrava avesse perso il lume dagli occhi tanto era esagitato. Si seppe poi che non solo lui, ma anche i celerotti avevano fatto il pieno di vino e grappa.
Meno male che sparava in alto: c'era la paura che accadesse un eccidio come quello di Modena dove morirono sei operai.
I minatori rinunciarono al comizio, ma non alla protesta. Rifugiati dietro le piante o ai bordi della piazza dove le camionette non potevano arrivare, urlavano i loro diritti, contro i licenziamenti e contro la Direzione, mai contro i celerotti ritenuti anch'essi inconsapevolmente strumenti della volontà padronale, anzi venivano apostrofati amichevolmente:
- Tornate a casa vostra, avete anche voi una famiglia da mantenere.-
- Passate dalla nostra parte, lasciate solo il Commissario a leccare il culo al Direttore.-
- Stasera vi aspettiamo al Circolo per bere un bicchiere di vino. Paghiamo noi.-
Qualche celerotto, il viso nascosto sotto l'elmetto tenuto fermo dal sottogola, sorrideva e, forse, approvava.
A sera inoltrata si addivenne ad un accordo: le parti sarebbero state convocate a Roma, presso il Ministero del Lavoro per trovare una soluzione. Così il terzo turno, la gita delle undici, riprese normalmente il lavoro.
Successivamente la Società Mineraria ritirò i licenziamenti, ma ottenne ugualmente il risultato voluto trasferendo in altre miniere, più o meno consenzienti, un gruppo di minatori; altri accettarono il "premio di buona uscita " di trecentomila lire se si licenziavano volontariamente. Molti scapoli, di fronte al pericolo di perdere il lavoro, accettarono questa soluzione per ritornare ai loro paesi d'origine sperando di inventarsi qualche commercio con quella somma che rappresentava più di sei mesi di paga.Questa giornata di lotta fu la prima di una lunga serie, all'inizio per impedire i licenziamenti, poi per scongiurare la chiusura della Miniera. Si interruppe qualsiasi possibilità di dialogo fra le due componenti che regolavano la vita del villaggio: minatori e Sindacati da una parte, Direzione della Miniera e azionisti della Società dall'altra. Gli interessi erano contrapposti, inconciliabili, e non era difficile prevedere chi sarebbe uscito perdente.
I minatori, dalla ricchezza della miniera traevano ragione della loro esistenza, la Società Mineraria, proprietaria dei giacimenti carboniferi del sottosuolo, perseguiva soltanto il massimo profitto e quando quest'ultimo veniva a mancare, abbandonava l'impresa. Chi stava a Milano, nel Palazzo, come dicevano i minatori, per indicare la sede Centrale, conosceva solo il valore del " Dio denaro ".
L'intervento della celere, schierata a fianco della Direzione della Miniera e l'inizio dei caroselli in piazza per disperdere i manifestanti, era un altro segnale negativo per i minatori perché significava che le istituzioni governative ormai erano definitivamente dalla parte del padrone.La vita del Villaggio cambiò rapidamente, furono organizzate meno feste da ballo, diradarono gli spettacoli. Nessuno più aveva voglia di divertirsi: il pericolo di nuovi licenziamenti era nell'aria, e chi perdeva il lavoro sapeva di essere condannato alla miseria, insieme ai suoi familiari.
Gli abitati del Villaggio, anziché vivere in armonia tra loro, per risolvere in modo migliore i problemi di convivenza con la Montecatini e sopportare meglio l'aspra vita che conducevano quotidianamente, facevano di tutto per inasprire i loro rapporti. Inevitabilmente si erano creati raggruppamenti ben distinti, anzi volutamente separati tra loro.
A livello superiore appartenevano i Dirigenti della Miniera, gli impiegati e le loro famiglie. Vivevano dentro il giardino recintato e sorvegliato e già questo li estraniava dalla comunità paesana. Per godere di qualche privilegio: buoni stipendi, abitazioni decorose, la possibilità di mandare i figli a studiare nel capoluogo, ecc. avevano dovuto schierarsi in favore della società Mineraria. Era impensabile che aderissero ad uno sciopero, difendevano in ogni occasione gli interessi della Società e, di conseguenza, erano sempre in contrasto con i lavoratori ai quali veniva assegnato un livello inferiore.
I minatori con le loro famiglie avevano poco da scegliere: dovevano difendere il posto di lavoro e se volevano sopravvivere ai pericoli della miniera e, magari, migliorare la paga giornaliera si scontravano contro gli interessi della Società Mineraria. Aderivano al sindacato minatori, emanazione della CGIL militavano nei partiti di sinistra, partecipavano a tutti gli scioperi ed alle manifestazioni politiche e sindacali, che, in quegli anni, erano organizzate, si può dire, un giorno sì e l'altro ancora.
La maggior parte degli scapoli faceva vita appartata, soffrendo la solitudine degli emigrati. Alcuni si erano integrati con la popolazione del Villaggio, altri partecipavano attivamente all'attività sindacale, ma molti di loro, dopo il turno di lavoro rimanevano nel dormitorio, per riposarsi, per parlare nel loro dialetto e ritornare, con i ricordi, alle loro terre ed alle loro famiglie.
Infine i crumiri, quelli che non partecipavano agli scioperi. Vivevano emarginati, insieme ai loro familiari perché, oltre che indebolire la lotta intrapresa dai loro colleghi, si rendevano odiosi per i compensi che ottenevano dalla Direzione della Miniera: premi antisciopero, gite, abitazioni più confortevoli ed erano invisi anche dalla parte impiegatizia che non voleva commistioni con il "popolino ".Vennero creati altri due sindacati, la UIL e la CISL che spesso e volentieri si schierano in favore della Società Montecatini.
La vita, nel villaggio, era difficile per tutti, ma formava caratteri forti, coscienze politiche ben definite: chi lottava per avere riconosciuti i propri diritti, chi si piegava alla volontà del padrone in cambio di qualche privilegio, chi stava a guardare, pavidamente tirandosi fuori dai problemi, risultando poi disprezzato da tutti Sul futuro della miniera e del Villaggio però, nessuno più nutriva fiducia!