RIBOLLA

 UNA VOLTA ERA UN VILLAGGIO MINERARIO


scritto da Erino Pippi.


   Agli inizi degli anni ‘50, nel  piccolo Villaggio minerario di Ribolla tutto apparteneva alla Società Montecatini.  
 
Erano di sua proprietà le case, le strade, l’acquedotto, la Chiesa, l’Ambulatorio, il Dopolavoro (il locale così chiamato  con il Bar e la sala del Cinema ), la Scuola, la squadra di Calcio e naturalmente la Miniera.
  
Erano di sua proprietà, nel senso che risultavano al suo esclusivo servizio, anche il Medico di fabbrica, il Maresciallo dei Carabinieri ed il Parroco.
  
- Anche l’aria che  respiriamo è di proprietà della Montecatini.- Dicevano gli abitanti del Villaggio, come oppressi da questa condizione. 
  
I minatori, che non volevano essere compresi nell’elenco delle cose possedute della Società, erano in perenne conflitto con i padroni della Miniera. 

    Le poche abitazioni del Villaggio, dove abitavano i minatori e le loro famiglie, erano state ricavate usando le vecchie costruzioni ed i capannoni che la società Mineraria non utilizzava più. Costruzioni basse, appiattite: due stanze, camera e cucina, senza gabinetto che, quando c’era, era collocato all’esterno in condominio fra due o più famiglie, spesso numerose. Famiglie  povere, ma dignitose, come sono tutte le persone che vivono onestamente del proprio lavoro: l’umiltà e la fierezza di chi è abituato al sacrificio giornaliero per migliorare la propria esistenza.

   L’ingresso delle casupole era protetto, quasi sempre, da una grande pergola che aveva la duplice funzione di fare ombra e riparare la porta e la finestra dal sole battente dei lunghi mesi estivi, poi a settembre produrre l’uva che, per chi sapeva conservarla, arrivava fresca o appassita fino al Natale. L’uva era un frutto gradito, tanto più che molti la usavano per companatico: pane e uva  era un buon boccone, per chi non aveva altro di meglio da dare ai propri figli che, crescendo, avevano sempre fame.    

   Sotto la pergola si radunavano le donne del rione, in attesa  che i loro uomini finissero il turno di lavoro o per non stare in casa a sfaccendare, facendo rumore e disturbare così il sonno del loro marito, che recuperava le ore perdute nel turno di notte. Erano bravissime nell’adoperare i ferri da calza o ricamare, oltre che spettegolare. Lavoravano la lana, che magari avevano filato loro stesse, per fare calze e maglie per tutta la famiglia, specialmente per gli uomini, ragazzi e mariti, che dovevano cambiarsi spesso. Chi aveva la famiglia numerosa non faceva “pari“ a stare dietro al consumo, all’ora si faceva aiutare da qualche amica, oppure rammendava le calze nei calcagni e le maglie nei gomiti fino a che era possibile. Tra queste c’era chi faceva la maglia anche quando camminava, per andare a fare la spesa allo spaccio della Montecatini o mentre stava in fila, davanti alla porta del forno, per comprare il pane, oppure per riempire i secchi d’acqua, alla fontana pubblica, che sgocciolava acqua solo per qualche ora al giorno.  Facevano la calza senza quasi guardare la punta dei ferri; chiacchieravano e contavano le maglie, dritto e rovescio, diritto e rovescio… e difficilmente sbagliavano, tanto erano allenate.
  
Qualcuna di loro cominciava a parlare dei problemi della Miniera, del lavoro  pericoloso dei propri uomini, della Società Montecatini che dominava su tutto e degli scioperi.   


  Le abitazioni brutte e scomode venivano, per quanto possibile, abbellite con tendine alle finestre e con vasi di fiori, collocati sopra i davanzali  e nei pressi dell’ingresso. Le donne  gareggiavano fra di loro per avere le fioriture più belle. Ai vasi di fiori si alternavano recipienti con piante di rosmarino, di salvia, di basilico e prezzemolo, dagli odori e dai sapori acri, adatti per la cucina e per tenere lontane le zanzare che, altrimenti, all’ora del tramonto avrebbero invaso le case. 

   Alcuni minatori invece, fra un turno di lavoro e l’altro, coltivavano piccoli appezzamenti di terra, chiamati “orti ”, che avevano avuto in concessione dalla  direzione della Miniera, dai quali ricavavano frutta e verdura per la propria famiglia e si vantavano, con gli amici, per i migliori prodotti ottenuti: pomodori, fagiolini, insalata, patate, ecc. Alcuni allevavano polli e conigli per portare in tavola la carne che altrimenti, se doveva essere  comprata al macello, avrebbe compromesso il bilancio familiare, perché la paga dei minatori era misera e non bastava per mantenere una famiglia, specie se numerosa.   

  C’era anche chi, non avendo la vocazione dell’ortolano o dell’allevatore, passava le sue ore di riposo al Bar mescita, scolandosi “ cinquini “ di vino e poi, nottetempo, razziava qualche pollo o qualche coniglio che altri, con passione e sacrificio allevava. Non di rado venivano scoperti, anche per la spiata di un amico del derubato ed allora erano botte ( scazzottate ) da orbi, essendo questo l’unico sistema vigente per farsi giustizia.

   Il “cinquino “, che si usava nel Bar,  era un bicchiere di vetro, con l’orlo tagliato su misura, che conteneva cinque lire di vino. Come aumentava il prezzo del vino, si abbassava il bordo del bicchiere, così che, oscillando il prezzo del vino, il cinquino costava sempre cinque lire. Questa antica regola godeva dell’approvazione di tutti: oste ed avventori. Era invece oggetto di continue liti la quantità dell’acqua con la quale veniva “allungato” il vino. 
  
 
- Oggi hai esagerato! Il vino non ha più il sapore di ieri, - così veniva accusato l’oste.

   - Sei  te  che  hai  mangiato  troppo  saporito  e  non  puoi  gustare questo vino che è genuino - era la scontata  risposta.

   Anche per questo, per non bere vino troppo annacquato nel cinquino sempre più piccolo, alcuni minatori costituirono un Circolo, con licenza di mescita, che ebbe una parte di rilievo nella storia del Villaggio Minerario di Ribolla. Successe quando la Montecatini sfrattò i partiti ed i sindacati dalle loro sedi e negò la sala del Dopolavoro per le assemblee dei minatori. Per iniziativa del PCI venne costruita la Casa del Popolo, con ampia sala e Circolo ARCI. I minatori si autotassarono sottoscrivendo mensilmente una giornata di lavoro e prestando la loro opera gratis per tirare su i muri e completare gli impianti. Molti minatori, anche per dare una risposta politica e per sostenere le spese di costruzione, offrirono le azioni della Montecatini S.p.A. che avevano ricevuto in omaggio in occasione di qualche ricorrenza. 

   La Casa del Popolo, poi chiamata “ Circolo “ era frequentata, per la maggior parte, dai minatori rossi, quasi tutti comunisti, socialisti e qualche repubblicano, per la maggior parte iscritti alla CGIL. Tutti contro la Società Montecatini, pronti a scioperare se il Sindacato Minatori  lo chiedeva.

   Mentre invece il Dopolavoro era il ritrovo di chi stava dalla parte della Montecatini: impiegati, i minatori democristiani, qualche socialista, ruffiani e crumiri ( chi non aderiva agli scioperi )  e tutti coloro che cercavano lavoro. 

   Il Villaggio era sorto in una piccola valle ai piedi di tre castelli medioevali, ( Montemassi, Tatti  e Castel di Pietra) circondato dalle colline metallifere dell’alta Maremma, intorno ai  pozzi di estrazione della miniera di carbone: Camorra,  Raffo, Costantino, Cortese e la discenderia  San  Feriolo, che  custodiva, in una nicchia ricavata nella parete rocciosa, la statua di Santa Barbara, la protettrice dei minatori, che vedeva la luce del sole soltanto un giorno all’anno, il 4 dicembre, in occasione del suo onomastico.

   La vallata però non godeva della bellezza delle terre di Maremma. La vegetazione era scarsa, perché il terreno era arso, vi crescevano solo acacie che davano ombra e gli eucalipti che, con le radici prosciugavano i campi paludosi e con il loro acre odore allontanavano le zanzare che la facevano da padrone nella lunga estate del Villaggio.

   Vi regnava ancora la malaria, la malattia tristemente famosa in tutta la Maremma.   Anche  il clima  faceva la  sua parte:  era pessimo e malsano, caldo e afoso in estate, umido e freddo d’inverno. L’aria era pesante,  inquinata, opprimente  e resa irrespirabile dalla polvere del carbone e dalle strade sterrate.  Insomma  era un brutto posto, offriva una sola cosa preziosa: IL LAVORO, l’oro nero! Come veniva chiamato il carbone che si estraeva dalla Miniera dei Ribolla.   


   A qualche decina di chilometri esistevano scavi etruschi, che risalivano al VII° - VI° secolo a.c., come dire 2.600 anni fa. Gli etruschi avevano lasciato tracce della loro abilità di minatori con la chiara indicazione che anche loro, qualche secolo a.c. sapevano scavare il minerale dal sottosuolo: conoscevano le tecniche per estrarre il  ferro e il rame. Estraevano il minerale in cave a cielo aperto, oppure scavando pozzi e gallerie. Fondevano il minerale in forni cilindrici, che venivano usati una sola volta: stendevano uno strato di minerale, un doppio strato di carbone vegetale, il tutto coperto e rivestito di argilla ed erbe; esaurita la combustione veniva spaccato il rivestimento e si recuperava la massa di metallo fuso ( ferro, rame ). 

  A fondo valle scorreva il fiume Bruna, che raccoglieva per tutto l’anno, acqua fresca e limpida, proveniente dalle colline metallifere, ed era alimentato dalle sorgenti sotterranee del Lago dell’Accesa. Correnti rapide sulla ghiaia bianca che solo a valle, prima di gettarsi nel mar Tirreno, si allargavano fuori dagli argini, alimentando le acque melmose della palude, che era la causa delle ultime febbri malariche.

   Il fiume Bruna tagliava in due la vallata  ed attenuava, per quanto possibile, il caldo soffocante di quattro mesi all’anno e la sua brezza mitigava la polvere di carbone della Miniera, che rendevano l’aria impura e irrespirabile.  

  Appostati sugli argini del fiume alcuni dilettanti pescavano con lenze improvvisate ghiozzi e carpe; altri con reti, tagliando la corrente da una  sponda all’altra, tiravano a riva pesciolini buoni da friggere. Altri ancora con le mani, catturavano  anguille e rane, dentro le loro tane, sotto il livello dell’acqua.

   Di nascosto, non solo perché era proibito, ma osteggiato dagli stessi pescatori dilettanti, qualche male intenzionato, catturava i pesci, avvelenandoli con l’erba “ mora “, un tipo di erba che cresceva in riva al fiume e che sviluppava una sostanza tossica se triturata fra due sassi e poi gettata dentro un laghetto artificiale  ricavato lungo il fiume, costruendo una diga provvisoria: i pesci, piccoli o grandi, che rimanevano imprigionati nel laghetto morivano tutti e nel giro di pochi minuti venivano a galla a pancia in su. In questo modo, per catturare qualche chilo di pesce, si distruggeva la vita del fiume.

   Gli argini erano ricoperti di fitta vegetazione, vi crescevano  anche alberi d’alto fusto: pioppi, ornelli e qualche querce, e formavano “ l’hàbitat “, l’ambiente naturale per animali selvatici: pettirossi, tordi, merli, ghiandaie e beccacce. I pochi minatori che possedevano una doppietta, cacciavano non solo per sport, ma perché la selvaggina era un boccone prelibato. Chi possedeva un cane bene addestrato, metteva nel carniere anche qualche lepre o qualche fagiano.

   I ragazzi del Villaggio, nelle giornate più calde, andavano a fare il bagno nel fiume, organizzando tuffi dalla base del  pilone del ponte e gare di nuoto contro corrente per mettere a prova la loro resistenza.

   Il fiume quindi era fonte di vita, non solo per la specie animale, ma anche per l’uomo. E lo fu fino a quando la Montecatini  non vi incanalò il “ Gallerione” che portava a valle  l’acqua di spurgo delle gallerie di scolo proveniente dalle Miniere di Pirite. Tempo un mese le acque limpide del fiume si trasformarono in fango e melma rugginosa ed il suo letto divenne di colore rossastro. Morirono pesci e ranocchie, la vegetazione sugli argini seccò come bruciata e gli animali del bosco e dei campi non trovarono più acqua da bere perché era inquinata da sostanze tossiche.

   A quei  tempi non era possibile chiedere alla società Montecatini di attivare un depuratore per non inquinare un fiume. La legge del massimo profitto che regola le attività di qualsiasi società per azioni, impone loro di ghermire tutto ciò che è possibile,  pagando il minimo prezzo, meglio se gratis, come quando si saccheggia la natura. 

     L’esistenza delle trecento famiglie e degli  “scapoli “ del Villaggio  era organizzata sugli orari  di lavoro della miniera. La sirena ogni otto ore, ordinava il cambio della  “ gita “, come si chiamava il turno di lavoro: ore 7, ore 15, ore 23. Otto ore di lavoro continuo, sottoterra, per sei giorni di fila: 48 ore per settimana, con la sola domenica di riposo. Spesso le ore settimanali di lavoro diventavano 56 ed anche 64 per le “ doppie “: due o tre turni consecutivi senza uscire di miniera, che i minatori con la famiglia numerosa accettavano  “volontariamente “ per il  maggiore guadagno che gli procuravano.

   All’uscita della gita del primo turno, alle ore 15, i bambini e le mogli più giovani si incamminavano lungo il sentiero che percorrevano i minatori, felici di incontrare il loro padre o il loro marito  che ritornava a casa per lavarsi, rifocillarsi e poi riposarsi ed essere pronto per il turno successivo. Felici anche di poterlo riabbracciare, perché il pericolo di infortuni, spesso mortali per chi lavorava in miniera, era quasi giornaliero.

   Rivedere il sole ( o le stelle ) alla fine di un turno di lavoro di otto ore nelle viscere della terra era come ritornare alla vita: - un altro giorno è passato! - Questo era il primo pensiero dei minatori quando uscivano all’aperto.


  Gli scapoli, ovvero  i minatori senza famiglia, fuggiti dalla miseria dei loro  paesi d’origine, erano giunti a Ribolla provenienti  dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Sardegna, dal Veneto, dalle Marche e dal vicino Monte Amiata. Abitavano nei  “camerotti “, i dormitori collettivi, dove erano collocate dieci - dodici brande, con altrettanti armadietti per contenere le poche cose personali. Vivevano come in caserma o come negli ospedali. Quando uno russava, gli altri non potevano dormire. Se uno  andava al gabinetto, dato che c’è n’era uno soltanto, tutti gli altro dovevano aspettare.

   Fili di ferro tirati da una parete all’altra servivano per appendere e fare asciugare i panni lavati o sudati. Per ogni branda pendeva, dal soffitto, una specie di gabbia per contenere la scorta delle vivande, perché, se conservate diversamente, sarebbero state facile preda dei topi, veri e propri predatori.

   Agli abitanti ed agli scapoli residenti a Ribolla si aggiungevano i minatori, ed anche  tra questi molti emigrati, provenienti giornalmente dai paesi limitrofi ( Tatti, Montemassi, Roccatederighi, Sassofortino, Roccastrada e Torniella ) che venivano a lavorare in miniera.  

   Una varietà di abitudini e costumi diversi, spesso in contrasto tra loro, creava una convivenza non certamente facile. Gli scapoli trascorrevano le ore di riposo oziando, giocando a carte, discutendo di sport, di politica, del lavoro in miniera, del pericoloso gas grisou e degli infortuni. Qualcuno leggeva i bollettini del Sindacato Minatori.

   Qualche volta, ubriachi, davano corso a liti, che finivano in scazzottate e richiedevano l’intervento dei Carabinieri, i quali facevano rapporto non solo al loro Comandante, il Maresciallo della locale Caserma ma, in modo ancora più dettagliato, al Capo Guardia della Società Mineraria, che aveva in assoluto,  il potere di sanzionare  punizioni a suo insindacabile giudizio, tanto la Direzione della Miniera  approvava il suo operato, anzi essa incoraggiava questo suo atteggiamento repressivo per tenere a bada “ gli indisciplinati “ .                                      

   Il Capo guardia era, dopo il Direttore della Miniera, il vero padrone del Villaggio Minerario.   I giovani scapoli, siciliani, sardi, marchigiani, talora si sposavano con le ragazze del Villaggio generando matrimoni difficili. Se si volevano bene sapevano sopportare le differenze delle culture, delle abitudini e delle usanze, Ma spesso non riuscivano a convivere e, pur continuando ad abitare insieme sotto lo stesso tetto, ( a quel tempo era impensabile il divorzio ) mal si tolleravano ed i litigi fra marito e moglie erano frequenti,  davano un brutto spettacolo nella tranquilla vita del paese ed erano motivo di pettegolezzi infiniti.    

   L’orario di inizio del lavoro veniva  annunciato dalla sirena. Chi si presentava in ritardo veniva rimandato a casa e scattavano i provvedimenti disciplinari. In effetti non sarebbe stato possibile  scendere in miniera per mezzo della “ gabbia “ l’ascensore che, all’inizio di ogni turno, calava i minatori  sottoterra. Dopo questa funzione la gabbia veniva utilizzata per estrarre il carbone e non si poteva modificare un programma con gli orari imposti dalla Società per ottenere la migliore produttività; ogni ora  un numero prefissato di vagoni carichi di carbone estratto dalle gallerie della miniera e portato in superficie, altrimenti niente “cottimo “, la parte aggiuntiva del salario, la più consistente, che permetteva alla Società Mineraria di sfruttare fino al limite della resistenza umana i propri dipendenti. 
  
Presentarsi in ritardo al posto di lavoro significava:
- la prima volta una contravvenzione pari all’importo di una giornata di paga.
- la seconda volta il trasferimento in un’altra miniera del Gruppo.
- la terza  il licenziamento in tronco.
  
Il licenziamento, come provvedimento disciplinare, era una pratica comune e ricorrente, una minaccia sempre sospesa sulla testa dei minatori. Per un nonnulla si veniva licenziati e non c’era santo a cui votarsi. La Società Mineraria ne faceva un uso discriminatorio per creare divisione fra i minatori più sindacalizzati e quelli appartenenti ai partiti colorati di rosso.

   Chi perdeva il lavoro, per qualsiasi motivo: malattia, provvedimento disciplinare ecc. perdeva anche il diritto all’alloggio e doveva abbandonare il Villaggio, lasciando a Ribolla, parenti, amicizie, interessi  ed abitudini. 

   Invece gli impiegati, i dipendenti della Miniera che lavoravano negli uffici tecnici ed amministrativi, erano trattati molto meglio dei minatori. Avevano abitazioni decorose con acqua corrente in casa, gabinetto e riscaldamento, tutte raccolte entro un recinto chiamato il Giardino con al centro la palazzina dove abitava  il Direttore della miniera.      Il giardino era vigilato giorno e notte dalle guardie della Società Mineraria e da feroci cani lupo.


   Gli impiegati e le loro famiglie facevano vita appartata. Dovevano, per volontà della Direzione della Miniera, ritenersi di rango superiore rispetto alla massa degli operai, erano sempre schierati in favore della Montecatini, dalla quale, in cambio, ottenevano benefici, piaceri e privilegi. I minatori, e le loro famiglie, invece, erano considerati una moltitudine di basso livello, idonei solo a farsi sfruttare. Una distinzione di classe che condizionava ed avvelenava la vita degli abitanti del Villaggio: da una parte quelli che  “pensavano “ e comandavano, dall’altra la massa che deve lavorare ed ubbidire.                                                              

   Dentro il recinto del giardino, gli impiegati ed i loro familiari, avevano i propri svaghi, il club,  la biblioteca e per fare dello sport  il campo da tennis dove potevano giocare solo loro.
  
I ragazzi del Villaggio, figli dei minatori, stavano ore ed ore aggrappati alla rete di recinzione del campo di gioco riservato agli impiegati, per seguire, invidiosi, chi giocava con le racchette e la pallina, divertendosi, quando si verificava qualche rimessa sbilenca o fuori misura, infatti se la pallina da tennis, colpita male scavalcava la rete era perduta: i ragazzi andavano a recuperarla ma non la restituivano ai maldestri giocatori, se la tenevano per i loro giochi.
  
Non potendo giocare nel campo da tennis regolamentare, i ragazzi,  avevano attrezzato uno spiazzo di terra battuta; al posto della rete divisoria una corda e poi colpi decisi alla pallina, anziché con la racchetta, che non potevano permettersela, con una tavoletta allungata con un manico ( simile ad un paletta ); partite accanite: singolo e doppio, senz’altro con più maestria dei privilegiati del giardino. 

   Per i  bambini e per i ragazzi  era piacevole abitare nel Villaggio. Estranei ai problemi della miniera, godevano di ampi spazzi all’aperto,  nei cantieri e nei depositi della miniera trovavano tanti attrezzi per costruire i loro giocattoli, vecchie ruote o cuscinetti, tavole, catene, tubi di rame, chiodi, viti e bulloni, tutto ciò che occorreva per costruire monopattini, carretti, spade e scudi per i loro giochi infantili non ancora intossicati dall’aspra vita del Villaggio.

  Il gioco che maggiormente li appassionava era il calcio.  Nel campetto dietro la Chiesa o in altri spazi livellati dal tanto correre, si disputavano ogni giorno, accanite partite: scapoli contro ammogliati, piccoli contro grandi, rione Palazzine contro rione Case Nuove, veri e propri tornei dove cresceva qualche campioncino che poi veniva chiamato nella squadra di calcio dell’A.S. Ribolla che militava  in prima serie.

   Non tutti andavano a scuola fino alla quinta elementare. Per un ragazzo smettere prima non era né proibito né criticato, tanto dovevano solo crescere per poi andare in miniera, magari al  posto del padre, quando non era più in grado di lavorare, oppure moriva d’infortunio o di silicosi. E per le bambine, prima si mettevano a fare le faccende di casa, meglio era. Di frequentare le scuole medie oppure le superiori, nemmeno a parlarne; bisognava andare a Grosseto oppure a Siena e solo i figli degli impiegati potevano frequentarle,  perché la Direzione della Miniera concedeva loro sussidi e borse di studio, non per i meriti degli studenti, ma in rapporto al comportamento dei loro padri, che dovevano sempre schierarsi dalla parte della società Mineraria.

   Se qualche figlio di minatori proseguiva gli studi oltre la quinta elementare lo si deveva, quasi sempre, all’opera illuminata del  suo maestro che, riscontrata l’intelligenza del ragazzo o della bambina, convinceva i genitori a sobbarcarsi le spese dei viaggi giornalieri andata e ritorno per Grosseto oppure a pagare la retta mensile in qualche istituto. Lo stesso maestro procurava  la maggior parte dei libri usati oppure acquistati a prezzi  scontati. Questi ragazzi poi, alla fine dell’anno, grazie ai voti che riportavano, ottenevano aiuti finanziari, seppur modesti, dalla stessa scuola che frequentavano. 

   Negli anni precedenti alle grandi lotte che inasprirono i rapporti tra minatori e Società Montecatini, nel Villaggio di Ribolla, venivano organizzate feste e veglioni con le migliori orchestre e famosi cantanti. Giungevano da tutti i paesi vicini e perfino da Grosseto, per assistere agli spettacoli teatrali ed alle feste da ballo organizzate in concorrenza tra Circolo e Dopolavoro. Sono rimaste famose le serate con Tajoli e Miranda Martino. 

   Questo era il Villaggio minerario di Ribolla, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, cresciuto intorno ai pozzi di estrazione della Miniera nel cuore della Maremma. Questi i suoi abitanti, una parte con le proprie famiglie, altri, gli scapoli, veri e propri emigranti, con i loro cari lontani centinaia di chilometri.
  
Su tutti e su tutto la Miniera, con i suoi problemi che condizionavano la vita del Villaggio.   


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