I racconti di Norberto Sabatini.

Vincitore del premio Letterario Daniele Boccardi 2003

 

MINIERA
 

La tenda, di un colore albicocca e accuratamente tirata sulla finestra,
diffondeva intorno alla stanza lame di luce sottili, lasciate filtrare dalla
persiana appena accostata. Adele si svegliò da un lungo sonno, benché fosse il primo pomeriggio, ignara del tempo trascorso. Si sentiva stanca. Una spossatezza nelle membra che la faceva soffrire, senza che lei lasciasse sfuggire, tuttavia, il minimo lamento dalle labbra serrate. Se non fosse stato per la testa e le braccia, che emergevano dalla coperta di lana, il letto sarebbe apparso vuoto. Era maggio, ma avvertiva il freddo. Una sensazione, lieve e crescente, che si stava arrampicando in tutte le ossa.
- Marco… Sara - chiamò, sottovoce.
Figlio e nuora si accostarono, come sempre premurosi, e lei indicò che le aggiustassero il guanciale.
- Tiriamola su - lui disse.
- Piano, mi raccomando - gli rispose la moglie.
Una bella coppia, che a Ribolla avevano invidiato in molti. Adele si sentì sollevare, e provò un po’ di ristoro nella nuova posizione. Sussurrò parole di ringraziamento, poi di nuovo chiuse gli occhi. Matrimonio riuscito, il loro, che presto avrebbe tagliato il traguardo d’argento. Un avvenimento acui sentiva che non avrebbe partecipato. Destino avverso, questo dei matrimoni. Chissà cosa avrebbe potuto essere il suo, troncato dopo appena sei anni di vita. Sentiva venir meno le forze, ma schiarirsi la mente, e immagini ormai perse che si affollavano sempre più nitide. Un amore giovanile, quello che l’aveva unita a Mario in quel lontano 1948. Cerimonia semplice, da dopoguerra, come si diceva allora. Le fedi comprate a rate, il rinfresco modesto in casa di lei, l’emozione violenta che l’aveva aggredita allo scambio della promessa. “Mario, prendi quest’anello…” e si era fermata, finché lui non le aveva stretto la mano. Quelle sue mani! Stesa sul letto, ora, immaginò che lui le stesse carezzando i capelli scompigliati. Mani forti, da minatore, decise e tenere allo stesso momento. Non aveva mai capito come potessero trasformarsi. Come potessero impugnare un piccone, per esempio, e condurla con grazia e abilità in un tango. Un ballerino. Tra le sue braccia aveva imparato i passi di danza senza sforzo. Bastavano lievi pressioni delle dita, o semplici spostamenti del corpo, che lo seguiva ciecamente, certa di non sbagliare. Dio come lo aveva amato! Ed anche ora… Cercò di muoversi sul letto, spronata da quel pensiero. Mario che la stringeva. Mario che la conduceva a passeggio per il paese. Mario che le carezzava il ventre, per sentire i calci della creatura che sarebbe nata. Due anni dopo il matrimonio, sì. Un maschio. “Bello come il sole” aveva detto la levatrice, prima di darglielo. Dio che emozione quel momento! Adesso, con le lenzuola che sentiva appiccicarsi alla schiena, le sembrò di avvertire il suo bimbo sul seno. Mario era di turno, quel giorno. La seconda gita, quella delle due di pomeriggio, al pozzo Littorio. Lo aveva atteso con trepidazione, immaginando come sarebbe stato quell’incontro. Era giunto a sera, sporco di carbone come sempre, ed era rimasto senza fiato alla vista del bambino, che dormiva accanto a lei infagottato in panni leggeri, la testolina appena fuori dalle lenzuola. Lo avrebbe preso in braccio, glielo aveva letto negli occhi bramosi, ma quelle sue mani parevano bruciate, tanto erano sporche. Se l’era osservate a lungo, impotente e felice, prima di balbettare “Tutto bene?” E lei aveva fatto cenno di sì con la testa, guardando il marito attraverso le lacrime. Anni difficili, anche se felici. Scolpiti nell’anima, che neppure il fiume del tempo era riuscito a levigare. Con la paga si arrivava pari. C’era sempre questa paura di una disgrazia, un tarlo che le cominciava all’inizio del turno, e cresceva fino a quando, lui, non tornava a casa. Allora era festa. “Ora si fa il giochino” diceva il bimbo, infilandosi dietro la porta, mentre i passi del padre risuonavano per la strada. Era una specie di nascondino, una pantomima che durava qualcheminuto, a cui lei assisteva sentendo scivolare via la paura. Marco si lasciava scovare, e poi prendere in collo dal padre, che infine lo toccava sul naso, macchiandolo di nero. Come le sue mani. Quelle mani…
“Mi mandano a Camorra” le aveva detto una mattina. Il giochino era appena finito, Marco si stava strofinando il naso, e lei aveva di colpo
avvertito la paura che tornava, dopo essere svanita come al solito.
- Il pozzo Camorra…- balbettò, ma si arrestò, affaticata.
Marco e Sara si avvicinarono.
- Che dici mamma?-

C’era questo sole, che entrava così prepotente nonostante la tenda. Certo non un sole invernale, ma non sapeva che mese fosse. Non ricordava.
- Che giorno è? - chiese.
- Tre maggio novantaquattro - rispose la nuora.
Quarant’anni!
Adele si mosse piano, lisciando la coperta con le mani. Poi serrò la destra, e le parve di stringere tra le dita la mano di lui, e sentire il freddo metallo della fede. Avevano ballato, la sera prima, al Cinema Montecatini. Toglievano le poltrone e si ballava. “Andiamo a letto presto” aveva detto lui “domattina sarà dura.” C’era da spegnere un incendio al Camorra, gliel’aveva spiegato in quei giorni. Era pericoloso. Era… “Un incubo” le aveva detto. “Scendo giù e penso che non vi rivedrò. Ma scendo per voi, perché vi amo. Te e Marco.” Lei non aveva saputo resistere e aveva chiesto un altro ballo. “Facciamo il prossimo?” L’ultimo valzer, con la sua mano che stringeva la sinistra di lui e con questa la fede.
Chissà che ore sono, pensò Adele. Quarant’anni fa, oggi, sarebbe tornato a casa per l’ultima volta, rinnovando in lei quella meravigliosa sensazione di leggerezza, che si accompagnava ai passi di lui sulla strada.
- Ci sarà una cerimonia domani - sentì che diceva suo figlio. - Dovrebbe essere al monumento dei minatori. Poi ci sarà una messa.--
Una messa? - chiese Sara. - Dove? -
-Al pozzo Camorra. -

Avrebbe voluto dormire ancora un po’, ma non poteva. Sentiva crescere una specie di angoscia, ed ora sapeva il perché. Veniva ogni anno, con l’approssimarsi della data. Non era mai riuscita a liberarsene, finendo per abituarsi, affezionarsi addirittura, come ci si può attaccare ad un oggetto che ci riporta a qualcosa. Un ricordo, che la legava ancor più a Mario, questa sensazione di pericolo imminente. La medesima di quella mattina, quando lui le aveva detto “Vado”. E lo aveva guardato negli occhi, tenendogli le mani. Le sue mani…L’ultimo contatto. Un gesto abituale, ripetuto ogni volta che la lasciava per andare al lavoro. Come avrebbe potuto sapere, quella mattina, che proprio quelle mani l’avrebbero salvata, un giorno?
- Adele - la voce di Sara la scosse.
- Sì? - rispose.
- Vuoi che chiuda la persiana? - Scosse la testa con fatica, poi disse: - No, Sara, grazie. -
Come era stata carina, delicata addirittura, quando Marco l’aveva portata in casa la prima volta. Oh! certo, sapeva del figlio e di questo suo amore adolescente, ma era stata colta ugualmente di sorpresa. “Mamma” aveva detto lui “ti presento la mia fidanzata.” Quanto tempo poteva essere trascorso dalla tragedia di Camorra? Solo allora si era davvero accorta che lui era ormai un uomo. E che… “Siete una donna molto coraggiosa” le aveva detto la ragazza. Poi aveva aggiunto: “Immagino quanto abbiate sofferto.” Un pensiero gentile, che aveva apprezzato, cogliendo negli occhi di lei l’impronta della sincerità. Ma non era sicura quanto potesse davvero immaginare le sue sofferenze. Anni spesi a crescere il bimbo, rinunce, sacrifici. Sì,
una frase toccante, quella di Sara, che nulla sapeva di quella mattina. Il tarlo l’aveva aggredita appena il marito era uscito di casa, con la sporta per il pranzo a tracolla. Non si era resa conto del tempo trascorso, fino a quando il bimbo era piombato in cucina. “Che succede mamma?” aveva detto, stropicciandosi gli occhi. Solo allora, si era accorta del trambusto che stava dando vita alla strada. Una via lunga e stretta, con le case dei minatori che parevano tanti automezzi militari. Tutte uguali, tutte in fila perfettamente allineate. Grida che si rincorrevano, su quella strada. Imprecazioni, un parlare concitato tra le persone. Il tarlo l’aveva agguantata all’improvviso, sotto la gola, soffocandola. “Che succede mamma?” ripeteva Marco tirandole la gonna. Ma fuori le grida salivano, qualcuno piangeva. E c’era quella donna, con le mani tra i capelli… L’aveva vista appena spalancata la porta, con una tale forza da scardinarla quasi. Suo marito era nella stessa squadra di Mario! “È scoppiato il gas!” le aveva urlato in faccia la donna. “È scoppiato il gas a Camorra!”
“Torna in camera Marco” aveva ordinato al bimbo, che non ne voleva sapere. E poi la sirena, puntuale nello scandire i turni, aveva suonato fuori orario. Un lungo ululato, da squarciare l’aria, che subito era apparso diverso e lugubre. Un annuncio di morte. Non aveva mai dimenticato il silenzio seguito alla sirena. Pochi istanti, come se il paese fosse disabitato…
- Sara…- sussurrò.
E poi, ancora: - Sara…- Non riusciva a vedere bene, con il sole che pareva gonfiare le tende, e tutta quella luce che invadeva la camera. Doveva essere in qualche altra stanza, sua nuora, altrimenti sarebbe corsa. Brava e affettuosa. Marco non avrebbe potuto combinare meglio. Ed anche io, pensò. Con il tempo, era entrata nei segreti della famiglia, e compreso la realtà del 4 maggio. Una vita segnata dalla promessa fatta a Mario, due giorni dopo la sciagura, quando lo avevano trovato. Ribolla era sprofondata subito in un’angoscia senza fine. L’intero paese era là, intorno a quel pozzo maledetto. Nelle sue viscere si calavano gli uomini, per andare incontro all’inferno e a quei disper-ti laggiù, mentre fuori, altri disperati aspettavano, immersi nel terrore. Oh! Non voleva pensare a quei giorni, a quell’attesa sfibrante. Non voleva ricordare le grida, i pianti, il via vai di gente e quel silenzio improvviso, ogni volta che il campanello dell’arganista suonava per far salire l’ascensore, quella gabbia. Marco l’avevano preso in custodia certi amici, e lei non aveva voluto staccarsi dal Camorra per tutto il giorno. I primi li avevano tirati fuori nel pomeriggio, e non si sapeva chi fossero. Subito le voci si erano rincorse, portando dietro disperazione e speranza. Ma il suo Mario non si trovava. “Il giochino lo farai domani” aveva detto al bimbo prima di lasciarlo. “Babbo lavorerà tutta la notte.” E il nuovo giorno si era affacciato alla luce, e poi vi si era inoltrato, mentre una pioggia sottile aveva preso a cadere, coprendo la miniera come un sudario. Aveva raccontato, a Sara, di quell’attesa. Le donne che facevano coraggio e chiedevano coraggio. La gabbia che saliva e rimbalzava arrestandosi, subito assalita, aggredita. C’era stato un momento che aveva voluto scendere anche lei. L’avevano afferrata, mani forti e decise, per portarla a casa. E poi qualcuno le aveva dato del the, o forse camomilla? E si era assopita, così almeno le era sembrato. Sì, Sara aveva saputo, nelle lunghe serate in cui si fa reciproca conoscenza, tutto questo. Era stato penoso riesumare i ricordi, ma aveva dovuto farlo. Marco era l’unico uomo in quella casa. Lei era stata gentile, con quelle frasi così toccanti. Una bontà d’animo lasciata affiorare al primo approccio. Ma avrebbe capito cosa significava per una donna sola un figlio? Vederlo crescere, giorno dopo giorno, e somigliare sempre di più al padre. Riconoscere in lui gli stessi gesti e le espressioni. Il medesimo timbro di voce. Marco era diventato Mario, nel suo cuore. Sarebbe stato difficile e doloroso staccarsene. Un nuovo tributo da pagare alla vita, che all’inizio aveva rifiutato con ostinazione. Il secondo giorno, il medico di famiglia, aveva bussato alla porta di casa. “Venga Adele” aveva detto cupo, e l’aveva condotta al garage della Montecatini, dove raccoglievano i corpi appena estratti. L’aveva sorretta, davanti all’ingresso, mano a mano che si avvicinavano. E lei… Oddio! Si era gettata sul cadavere del marito, per strappargli di dosso quel lenzuolo che lo copriva a metà, ma l’avevano bloccata. Si era svincolata, ribellata, aveva urlato “Mario! Mario!” fino a perdere la voce. Ma il medico di famiglia aveva
scosso la testa con vigore, guardandola dritto negli occhi. “Meglio di no” le aveva detto. Per questo, aveva visto il suo uomo a metà. E lo aveva riconosciuto per come si era legato gli scarponi. E quelle sue mani, che penzolavano… Mani bianche, aveva pensato. Che strano. No, Sara non aveva mai saputo. E neppure suo figlio aveva mai saputo, di quella promessa. “Sarò sempre tua sposa, Mario” sussurrata come una brezza di primavera, a quel corpo che era meglio non vedere.
- Marco… - chiamò agitandosi nel letto. - La canzone… Marco… -
- Mamma, hai chiesto qualcosa? -
- La canzone. -
Qualcuno entrò in camera, ma non riuscì a conoscere chi fosse. Adesso avvertiva crescere il freddo dentro di sé, e avrebbe volentieri infilato le braccia sotto la coperta, ma non poteva. Le piaceva carezzare quella trapunta, regalo di suo marito il primo Natale di matrimonio. Non era stata facile la vita senza di lui. La promessa aveva portato scelte obbligate e difficili, per una donna che gli uomini guardavano a lungo, quando passeggiava per Ribolla. Aveva firmato, sollevando la Montecatini da ogni responsabilità nella sciagura, e questo aveva assicurato un futuro. Soldi e pensione, per mandare avanti la casa, crescere e far studiare il bimbo. Ma c’è sempre il rovescio della medaglia. E solo in questi giorni, quelli che allora le avevano tolto il saluto incontrandola per strada, erano tornati e farle visita. Amarezze, sì, ma anche la gioia di vedere Marco farsi uomo. Un uomo su cui poter contare, che si era laureato, con un lavoro migliore di quello del padre. Non sarebbe stato il grisou a portarglielo via, questa volta. No.
- Nonna, come state? -
Gesù! Cristina! Ma non doveva essere all’Università? Adele sollevò appena la mano e sentì la stretta dolce della ragazza, e poi il bacio di lei sulla fronte. Una figlia, ecco cos’era. La femmina che il suo Mario non aveva potuto darle. Iddio, con una mano toglie e con l’altra da…
“Immagino quanto avete sofferto” le parole di Sara le tornarono di nuovo in mente. Era stato allora, dopo quel fidanzamento inatteso, che era arrivato il primo ed unico momento di debolezza. L’uomo di casa se ne sarebbe andato con la sua ragazza, e lei sarebbe rimasta sola. Sola!
- Cristina - sussurrò.
- Sono qui nonna. -
- La specchiera, è al suo posto?-
- Sì…- La domanda della nipote rimase nell’aria, e Adele ne avvertì la presenza in quel silenzio improvviso. Ci sono tanti modi di guardarsi allo specchio, e lei aveva preso a farlo in maniera diversa, dopo il fidanzamento del figlio. Il tempo era trascorso, e in principio era stata quasi una verifica, un voler controllare, su se stessa, i danni prodotti dagli anni. Forse una rivincita, verso Marco e Sara, che sempre più spesso uscivano lasciandola sola. “Sono giovani” le diceva qualche amica. “Si sa che fanno così.” Ma in quei giorni lei non lo accettava, e la specchiera, che ora immaginò al suo posto in fondo alla camera, allora le disse che il tempo le aveva voluto bene. All’inizio rimase stupita. Non si era più guardata in quel modo, e non credeva ai suoi occhi. Anni di sacrifici e rinunce scivolarono via, poco a poco, e lasciarono il posto a nuove aspirazioni. Sì, cominciò a piacerle sentirsi finalmente debole, e lasciarsi andare ai sogni. Fu come lo sciogliersi della neve sotto il primo sole caldo. Una sensazione che la stordì, relegando in fondo alla memoria quella promessa. L’uomo veniva da fuori, e non ne conobbe mai neppure il nome. Lui le disse che non sopportava di saperla sola, lei rispose che ci avrebbe pensato. Ma quel giorno di primavera, quel giorno di aprile, con la casa che brillava come uno specchio nuovo, e quel profumo di gelsomini che stordiva, quel giorno, la canzone ruppe improvvisamente il silenzio attonito del primo pomeriggio, riportandola alla realtà della sua promessa.
- Ciao mamma - sentì che diceva Cristina.
- Ciao tesoro - rispose Sara. - Hai fatto buon viaggio? -
- Sì.-

I passi di Marco risuonarono nel corridoio. Chissà perché ci metteva così tanto, lei era sempre più stanca. Sempre più debole. Lo sentì armeggiare con qualcosa. Forse quel mangianastri che aveva comperato, quando l’aveva registrata apposta per lei. Ascoltarla di nuovo, ora, non desiderava altro.
- Cos’è? - domandò la nipote.
- È Miniera - intervenne Sara. - Piace tanto a nonna. -
- Oh! - esclamò la ragazza.
Il mio segreto, in questa canzone, pensò Adele. Brividi conosciuti l’aggredirono. Quella musica e quelle parole, suscitavano in lei un’emozione profonda, ogni volta che le udiva. Il titolo non lo avrebbe mai dimenticato. Lo aveva chiesto a Marco, quel pomeriggio d’aprile, quando per caso le era capitato di ascoltarla per la prima volta. Aveva appena indossato un vestito nuovo, pronta ad uscire, quando le note si erano sprigionate dallo stereo del figlio avvolgendo la stanza. Era una storia di minatori, e parlava di ritorni, di carbone e di mani nere di fumo…
La musica, ora, si levò nell’aria, e Adele si mosse piano nel letto. Avrebbe dato qualunque cosa, adesso, per poter ballare con Mario queste note, ai loro tempi sconosciute. L’altro uomo l’attendeva fuori, quel giorno d’aprile. Le avrebbe rivelato il suo nome ed altre cose ancora, e lei aveva indossato quel vestito per l’occasione. Ma la canzone, chissà perché, la stava distraendo, con quelle frasi dense di significato. “Le case, le pietre, ed il car-bone dipingeva, di nero, il mondo…” Si era fermata, in mezzo alla stanza, e aveva ascoltato, distratta. Ancora pochi istanti per aprire la porta e uscire, ma la musica aveva preso a crescere d’intensità, e le parole la riportavano a sensazioni conosciute. “Tu quando tornavo eri felice…” Di nuovo il tarlo che la tormentava, e lei non aveva capito il perché, paralizzata con la mano sulla maniglia, quando Mario le era esploso nella mente. Nitido, reale, una presenza nella stanza che l’aveva spinta a toccarsi l’anulare sinistro. Le due fedi erano ancora insieme! “Di rivedere le mie mani…” recitava la canzone, e lei aveva rivisto, come in un film, quella scena al garage della Montecatini. “Meglio di no” diceva il medico di famiglia, fulminandola con gli occhi. E suo marito steso lì, su quelle tavole arrangiate, in quello stanzone che rimbombava di pianti e grida, che mostrava gli scarponi legati come solo lui sapeva, e le mani. Quelle mani…
“Nere di fumo, bianche d’amore…” disse ora la voce in falsetto, eterea e inarrivabile. Adele tremò, mentre i versi salivano in cielo, ora come quel giorno d’aprile, per restare sospesi nell’aria in attesa che si affievolisse la musica.
- Bianche d’amore - disse Adele, e la voce si spense in un sussurro.
Avrebbe pianto, ma ricacciò dentro le lacrime. Il senso di una vita, in queste parole semplici, eppure rivelatrici. In mezzo alla stanza, la brezza di primavera che entrava dalle finestre aperte e l’orologio che diceva quanto fosse tardi, aveva infine capito, in quel ritorno di Mario dall’inferno di Camorra, perché le mani fossero così immacolate. “Bianche d’amore…” un messaggio. Un modo per dirle che l’avrebbe sempre amata, che non sarebbe mai stata sola. Così, l’uomo in attesa per le strade di Ribolla, in quel pomeriggio caldo, aspettò invano. E poi fu come non fosse mai esistito, se non nella fantasia.
Il sole si era certamente spostato. Adele scorse una nuova luce dorata, attraversare la tenda e avvolgere come un’aureola le persone nella camera. La canzone era terminata, e un silenzio ostinato era sceso intorno, come se ognuno stesse ripensando a quelle parole. Non era stato difficile tenersi dentro il segreto. La vita era corsa via in un baleno, portando con sé, quasi subito, il matrimonio di Marco, e poi quel magnifico dono che era stata Cristina. Una ragazza che riempiva la casa con la sua vivacità, e quel trillo di voce che era come pizzicare un’arpa.
- Nonna mi sentite? -
Sì, ti sento, pensò Adele. Non riusciva a parlare, tuttavia. Quelle emo-zioni, ora come allora così intense, le avevano tolto quasi tutte le energie residue. Sentì le mani della nipote aggiustare la trapunta, e poi una lieve carezza sui suoi capelli. Non poteva distinguere che la sagoma di lei, ma indovinò quel sorriso così aperto e quello sguardo così dolce. Le avrebbe confidato il suo segreto, ma capiva come questo, oramai, appartenesse solo ai suoi ricordi. Custodito nello scrigno più riposto dell’anima. Un nuovo dono d’amore da portare a…
- Sarò sempre tua sposa, Mario - disse, e la sua voce la stupì.
- Nonna…Nonna. - Cristina le prese le spalle. Marco e Sara si accostarono al letto.
- Mamma! -
- Adele…Adele.
Mani le toccarono il polso, e poi il cuore. La sua famiglia tutta intorno!
Avrebbe voluto dire tante cose, ma la voce non voleva uscire. Cristina avvicinò il suo volto e di nuovo sentì quel bacio delicato sulla fronte. Non poteva vederla più bene, oramai. Aveva la sensazione di vagare in quella luce d’oro che rimandava la tenda. Scorgeva a fatica sagome in movimento, ma non le fu difficile indovinarne i volti, e immaginare in quegli occhi la preoccupazione…
Gli occhi di Cristina, pensò. Così vagamente orientali, come quelli di Mario. Il giorno che nacque, il tempo pareva essersi fermato, in quella sala d’attesa che sapeva di lavanda. Un’infermiera era apparsa, all’improvviso, con un sorriso che le illuminava il volto, e aveva annunciato: “Femmina!”. Per un istante, aveva temuto che i suoi orecchi la stessero tradendo. Era entrata nella camerina, dove la bimba dormiva appoggiata al seno della madre e… “Prendila in braccio Adele” aveva detto Sara. “Fammi contenta”. E gliel’aveva consegnata, semplicemente così, con gli occhi che le brillavano come due more lavate da un acquazzone estivo. Sì, la vita pareggiava i conti… Ma quante emozioni! Troppe, per un solo giorno. Si sentiva esausta, in preda ad un bisogno impellente di riposare, riposare…Niente dolori, per fortuna, ma la trapunta stava diventando
pesante, e quel freddo, così intenso, che saliva su, fino al petto… Mosse appena le mani, e di nuovo altre mani la toccarono, familiari, amate. Avrebbe voluto parlare, ma il respiro si stava facendo sempre più lento.
- Nonna …-
- Mamma…-
- Adele…-

Il sole non la scaldava più. Perfino respirare stava diventando un tormento. Le mani sentivano allontanarsi quel tocco confortante della sua famiglia. Chissà quale destino per tutti, se non avesse ascoltato, quel pomeriggio d’aprile, quella canzone. Una sofferenza, la miniera, che ora stava per finire, con quel tarlo che svaniva, poco a poco, cedendo il posto ad un meraviglioso senso di pace. Tranquillizzare i suoi! Rassicurarli! Questo, avrebbe voluto fare. Ma non poteva più trasmettere loro, ciò che sentiva crescere ora dentro di sé. Una voce sempre più netta, più forte!
“Sto andando da Mario” avrebbe detto volentieri.
Ma non le riuscì.

 

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