MINIERA
La tenda, di un colore albicocca e
accuratamente tirata sulla finestra,
diffondeva intorno alla stanza lame di luce sottili, lasciate filtrare
dalla
persiana appena accostata. Adele si svegliò da un lungo sonno, benché
fosse il primo pomeriggio, ignara del tempo trascorso. Si sentiva
stanca. Una spossatezza nelle membra che la faceva soffrire, senza che
lei lasciasse sfuggire, tuttavia, il minimo lamento dalle labbra
serrate. Se non fosse stato per la testa e le braccia, che emergevano
dalla coperta di lana, il letto sarebbe apparso vuoto. Era maggio, ma
avvertiva il freddo. Una sensazione, lieve e crescente, che si stava
arrampicando in tutte le ossa.
- Marco… Sara - chiamò, sottovoce.
Figlio e nuora si accostarono, come sempre premurosi, e lei indicò che
le aggiustassero il guanciale.
- Tiriamola su - lui disse.
- Piano, mi raccomando - gli rispose la moglie.
Una bella coppia, che a Ribolla avevano invidiato in molti. Adele si
sentì sollevare, e provò un po’ di ristoro nella nuova posizione.
Sussurrò parole di ringraziamento, poi di nuovo chiuse gli occhi.
Matrimonio riuscito, il loro, che presto avrebbe tagliato il traguardo
d’argento. Un avvenimento acui sentiva che non avrebbe partecipato.
Destino avverso, questo dei matrimoni. Chissà cosa avrebbe potuto
essere il suo, troncato dopo appena sei anni di vita. Sentiva venir
meno le forze, ma schiarirsi la mente, e immagini ormai perse che si
affollavano sempre più nitide. Un amore giovanile, quello che l’aveva
unita a Mario in quel lontano 1948. Cerimonia semplice, da dopoguerra,
come si diceva allora. Le fedi comprate a rate, il rinfresco modesto
in casa di lei, l’emozione violenta che l’aveva aggredita allo scambio
della promessa. “Mario, prendi quest’anello…” e si era fermata, finché
lui non le aveva stretto la mano. Quelle sue mani! Stesa sul letto,
ora, immaginò che lui le stesse carezzando i capelli scompigliati.
Mani forti, da minatore, decise e tenere allo stesso momento. Non
aveva mai capito come potessero trasformarsi. Come potessero impugnare
un piccone, per esempio, e condurla con grazia e abilità in un tango.
Un ballerino. Tra le sue braccia aveva imparato i passi di danza senza
sforzo. Bastavano lievi pressioni delle dita, o semplici spostamenti
del corpo, che lo seguiva ciecamente, certa di non sbagliare. Dio come
lo aveva amato! Ed anche ora… Cercò di muoversi sul letto, spronata da
quel pensiero. Mario che la stringeva. Mario che la conduceva a
passeggio per il paese. Mario che le carezzava il ventre, per sentire
i calci della creatura che sarebbe nata. Due anni dopo il matrimonio,
sì. Un maschio. “Bello come il sole” aveva detto la levatrice, prima
di darglielo. Dio che emozione quel momento! Adesso, con le lenzuola
che sentiva appiccicarsi alla schiena, le sembrò di avvertire il suo
bimbo sul seno. Mario era di turno, quel giorno. La seconda gita,
quella delle due di pomeriggio, al pozzo Littorio. Lo aveva atteso con
trepidazione, immaginando come sarebbe stato quell’incontro. Era
giunto a sera, sporco di carbone come sempre, ed era rimasto senza
fiato alla vista del bambino, che dormiva accanto a lei infagottato in
panni leggeri, la testolina appena fuori dalle lenzuola. Lo avrebbe
preso in braccio, glielo aveva letto negli occhi bramosi, ma quelle
sue mani parevano bruciate, tanto erano sporche. Se l’era osservate a
lungo, impotente e felice, prima di balbettare “Tutto bene?” E lei
aveva fatto cenno di sì con la testa, guardando il marito attraverso
le lacrime. Anni difficili, anche se felici. Scolpiti nell’anima, che
neppure il fiume del tempo era riuscito a levigare. Con la paga si
arrivava pari. C’era sempre questa paura di una disgrazia, un tarlo
che le cominciava all’inizio del turno, e cresceva fino a quando, lui,
non tornava a casa. Allora era festa. “Ora si fa il giochino” diceva
il bimbo, infilandosi dietro la porta, mentre i passi del padre
risuonavano per la strada. Era una specie di nascondino, una pantomima
che durava qualcheminuto, a cui lei assisteva sentendo scivolare via
la paura. Marco si lasciava scovare, e poi prendere in collo dal
padre, che infine lo toccava sul naso, macchiandolo di nero. Come le
sue mani. Quelle mani…
“Mi mandano a Camorra” le aveva detto una mattina. Il giochino era
appena finito, Marco si stava strofinando il naso, e lei aveva di
colpo
avvertito la paura che tornava, dopo essere svanita come al solito.
- Il pozzo Camorra…- balbettò, ma si arrestò, affaticata.
Marco e Sara si avvicinarono.
- Che dici mamma?-
C’era questo sole, che entrava così
prepotente nonostante la tenda. Certo non un sole invernale, ma non
sapeva che mese fosse. Non ricordava.
- Che giorno è? - chiese.
- Tre maggio novantaquattro - rispose la nuora.
Quarant’anni!
Adele si mosse piano, lisciando la coperta con le mani. Poi serrò la
destra, e le parve di stringere tra le dita la mano di lui, e sentire
il freddo metallo della fede. Avevano ballato, la sera prima, al
Cinema Montecatini. Toglievano le poltrone e si ballava. “Andiamo a
letto presto” aveva detto lui “domattina sarà dura.” C’era da spegnere
un incendio al Camorra, gliel’aveva spiegato in quei giorni. Era
pericoloso. Era… “Un incubo” le aveva detto. “Scendo giù e penso che
non vi rivedrò. Ma scendo per voi, perché vi amo. Te e Marco.” Lei non
aveva saputo resistere e aveva chiesto un altro ballo. “Facciamo il
prossimo?” L’ultimo valzer, con la sua mano che stringeva la sinistra
di lui e con questa la fede.
Chissà che ore sono, pensò Adele. Quarant’anni fa, oggi, sarebbe
tornato a casa per l’ultima volta, rinnovando in lei quella
meravigliosa sensazione di leggerezza, che si accompagnava ai passi di
lui sulla strada.
- Ci sarà una cerimonia domani - sentì che diceva suo figlio. -
Dovrebbe essere al monumento dei minatori. Poi ci sarà una messa.--
Una messa? - chiese Sara. - Dove? -
-Al pozzo Camorra. -
Avrebbe voluto dormire ancora un po’,
ma non poteva. Sentiva crescere una specie di angoscia, ed ora sapeva
il perché. Veniva ogni anno, con l’approssimarsi della data. Non era
mai riuscita a liberarsene, finendo per abituarsi, affezionarsi
addirittura, come ci si può attaccare ad un oggetto che ci riporta a
qualcosa. Un ricordo, che la legava ancor più a Mario, questa
sensazione di pericolo imminente. La medesima di quella mattina,
quando lui le aveva detto “Vado”. E lo aveva guardato negli occhi,
tenendogli le mani. Le sue mani…L’ultimo contatto. Un gesto abituale,
ripetuto ogni volta che la lasciava per andare al lavoro. Come avrebbe
potuto sapere, quella mattina, che proprio quelle mani l’avrebbero
salvata, un giorno?
- Adele - la voce di Sara la scosse.
- Sì? - rispose.
- Vuoi che chiuda la persiana? - Scosse la testa con fatica, poi
disse: - No, Sara, grazie. -
Come era stata carina, delicata addirittura, quando Marco l’aveva
portata in casa la prima volta. Oh! certo, sapeva del figlio e di
questo suo amore adolescente, ma era stata colta ugualmente di
sorpresa. “Mamma” aveva detto lui “ti presento la mia fidanzata.”
Quanto tempo poteva essere trascorso dalla tragedia di Camorra? Solo
allora si era davvero accorta che lui era ormai un uomo. E che… “Siete
una donna molto coraggiosa” le aveva detto la ragazza. Poi aveva
aggiunto: “Immagino quanto abbiate sofferto.” Un pensiero gentile, che
aveva apprezzato, cogliendo negli occhi di lei l’impronta della
sincerità. Ma non era sicura quanto potesse davvero immaginare le sue
sofferenze. Anni spesi a crescere il bimbo, rinunce, sacrifici. Sì,
una frase toccante, quella di Sara, che nulla sapeva di quella
mattina. Il tarlo l’aveva aggredita appena il marito era uscito di
casa, con la sporta per il pranzo a tracolla. Non si era resa conto
del tempo trascorso, fino a quando il bimbo era piombato in cucina.
“Che succede mamma?” aveva detto, stropicciandosi gli occhi. Solo
allora, si era accorta del trambusto che stava dando vita alla strada.
Una via lunga e stretta, con le case dei minatori che parevano tanti
automezzi militari. Tutte uguali, tutte in fila perfettamente
allineate. Grida che si rincorrevano, su quella strada. Imprecazioni,
un parlare concitato tra le persone. Il tarlo l’aveva agguantata
all’improvviso, sotto la gola, soffocandola. “Che succede mamma?”
ripeteva Marco tirandole la gonna. Ma fuori le grida salivano,
qualcuno piangeva. E c’era quella donna, con le mani tra i capelli…
L’aveva vista appena spalancata la porta, con una tale forza da
scardinarla quasi. Suo marito era nella stessa squadra di Mario! “È
scoppiato il gas!” le aveva urlato in faccia la donna. “È scoppiato il
gas a Camorra!”
“Torna in camera Marco” aveva ordinato al bimbo, che non ne voleva
sapere. E poi la sirena, puntuale nello scandire i turni, aveva
suonato fuori orario. Un lungo ululato, da squarciare l’aria, che
subito era apparso diverso e lugubre. Un annuncio di morte. Non aveva
mai dimenticato il silenzio seguito alla sirena. Pochi istanti, come
se il paese fosse disabitato…
- Sara…- sussurrò.
E poi, ancora: - Sara…- Non riusciva a vedere bene, con il sole che
pareva gonfiare le tende, e tutta quella luce che invadeva la camera.
Doveva essere in qualche altra stanza, sua nuora, altrimenti sarebbe
corsa. Brava e affettuosa. Marco non avrebbe potuto combinare meglio.
Ed anche io, pensò. Con il tempo, era entrata nei segreti della
famiglia, e compreso la realtà del 4 maggio. Una vita segnata dalla
promessa fatta a Mario, due giorni dopo la sciagura, quando lo avevano
trovato. Ribolla era sprofondata subito in un’angoscia senza
fine. L’intero paese era là, intorno a quel pozzo maledetto. Nelle sue
viscere si calavano gli uomini, per andare incontro all’inferno e a
quei disper-ti laggiù, mentre fuori, altri disperati aspettavano,
immersi nel terrore. Oh! Non voleva pensare a quei giorni, a quell’attesa
sfibrante. Non voleva ricordare le grida, i pianti, il via vai di
gente e quel silenzio improvviso, ogni volta che il campanello
dell’arganista suonava per far salire l’ascensore, quella gabbia.
Marco l’avevano preso in custodia certi amici, e lei non aveva voluto
staccarsi dal Camorra per tutto il giorno. I primi li avevano tirati
fuori nel pomeriggio, e non si sapeva chi fossero. Subito le voci si
erano rincorse, portando dietro disperazione e speranza. Ma il suo
Mario non si trovava. “Il giochino lo farai domani” aveva detto al
bimbo prima di lasciarlo. “Babbo lavorerà tutta la notte.” E il nuovo
giorno si era affacciato alla luce, e poi vi si era inoltrato, mentre
una pioggia sottile aveva preso a cadere, coprendo la miniera come un
sudario. Aveva raccontato, a Sara, di quell’attesa. Le donne che
facevano coraggio e chiedevano coraggio. La gabbia che saliva e
rimbalzava arrestandosi, subito assalita, aggredita. C’era stato un
momento che aveva voluto scendere anche lei. L’avevano afferrata, mani
forti e decise, per portarla a casa. E poi qualcuno le aveva dato del
the, o forse camomilla? E si era assopita, così almeno le era
sembrato. Sì, Sara aveva saputo, nelle lunghe serate in cui si fa
reciproca conoscenza, tutto questo. Era stato penoso riesumare i
ricordi, ma aveva dovuto farlo. Marco era l’unico uomo in quella casa.
Lei era stata gentile, con quelle frasi così toccanti. Una bontà
d’animo lasciata affiorare al primo approccio. Ma avrebbe capito cosa
significava per una donna sola un figlio? Vederlo crescere, giorno
dopo giorno, e somigliare sempre di più al padre. Riconoscere in lui
gli stessi gesti e le espressioni. Il medesimo timbro di voce. Marco
era diventato Mario, nel suo cuore. Sarebbe stato difficile e doloroso
staccarsene. Un nuovo tributo da pagare alla vita, che all’inizio
aveva rifiutato con ostinazione. Il secondo giorno, il medico di
famiglia, aveva bussato alla porta di casa. “Venga Adele” aveva detto
cupo, e l’aveva condotta al garage della Montecatini, dove
raccoglievano i corpi appena estratti. L’aveva sorretta, davanti
all’ingresso, mano a mano che si avvicinavano. E lei… Oddio! Si era
gettata sul cadavere del marito, per strappargli di dosso quel
lenzuolo che lo copriva a metà, ma l’avevano bloccata. Si era
svincolata, ribellata, aveva urlato “Mario! Mario!” fino a perdere la
voce. Ma il medico di famiglia aveva
scosso la testa con vigore, guardandola dritto negli occhi. “Meglio di
no” le aveva detto. Per questo, aveva visto il suo uomo a metà. E lo
aveva riconosciuto per come si era legato gli scarponi. E quelle sue
mani, che penzolavano… Mani bianche, aveva pensato. Che strano. No,
Sara non aveva mai saputo. E neppure suo figlio aveva mai saputo, di
quella promessa. “Sarò sempre tua sposa, Mario” sussurrata come una
brezza di primavera, a quel corpo che era meglio non vedere.
- Marco… - chiamò agitandosi nel letto. - La canzone… Marco… -
- Mamma, hai chiesto qualcosa? -
- La canzone. -
Qualcuno entrò in camera, ma non riuscì a conoscere chi fosse. Adesso
avvertiva crescere il freddo dentro di sé, e avrebbe volentieri
infilato le braccia sotto la coperta, ma non poteva. Le piaceva
carezzare quella trapunta, regalo di suo marito il primo Natale di
matrimonio. Non era stata facile la vita senza di lui. La promessa
aveva portato scelte obbligate e difficili, per una donna che gli
uomini guardavano a lungo, quando passeggiava per Ribolla. Aveva
firmato, sollevando la Montecatini da ogni responsabilità nella
sciagura, e questo aveva assicurato un futuro. Soldi e pensione, per
mandare avanti la casa, crescere e far studiare il bimbo. Ma c’è
sempre il rovescio della medaglia. E solo in questi giorni, quelli che
allora le avevano tolto il saluto incontrandola per strada, erano
tornati e farle visita. Amarezze, sì, ma anche la gioia di vedere
Marco farsi uomo. Un uomo su cui poter contare, che si era laureato,
con un lavoro migliore di quello del padre. Non sarebbe stato il
grisou a portarglielo via, questa volta. No.
- Nonna, come state? -
Gesù! Cristina! Ma non doveva essere all’Università? Adele sollevò
appena la mano e sentì la stretta dolce della ragazza, e poi il bacio
di lei sulla fronte. Una figlia, ecco cos’era. La femmina che il suo
Mario non aveva potuto darle. Iddio, con una mano toglie e con l’altra
da…
“Immagino quanto avete sofferto” le parole di Sara le tornarono di
nuovo in mente. Era stato allora, dopo quel fidanzamento inatteso, che
era arrivato il primo ed unico momento di debolezza. L’uomo di casa se
ne sarebbe andato con la sua ragazza, e lei sarebbe rimasta sola.
Sola!
- Cristina - sussurrò.
- Sono qui nonna. -
- La specchiera, è al suo posto?-
- Sì…- La domanda della nipote rimase nell’aria, e Adele ne avvertì la
presenza in quel silenzio improvviso. Ci sono tanti modi di guardarsi
allo specchio, e lei aveva preso a farlo in maniera diversa, dopo il
fidanzamento del figlio. Il tempo era trascorso, e in principio era
stata quasi una verifica, un voler controllare, su se stessa, i danni
prodotti dagli anni. Forse una rivincita, verso Marco e Sara, che
sempre più spesso uscivano lasciandola sola. “Sono giovani” le diceva
qualche amica. “Si sa che fanno così.” Ma in quei giorni lei non lo
accettava, e la specchiera, che ora immaginò al suo posto in fondo
alla camera, allora le disse che il tempo le aveva voluto bene.
All’inizio rimase stupita. Non si era più guardata in quel modo, e non
credeva ai suoi occhi. Anni di sacrifici e rinunce scivolarono via,
poco a poco, e lasciarono il posto a nuove aspirazioni. Sì, cominciò a
piacerle sentirsi finalmente debole, e lasciarsi andare ai sogni. Fu
come lo sciogliersi della neve sotto il primo sole caldo. Una
sensazione che la stordì, relegando in fondo alla memoria quella
promessa. L’uomo veniva da fuori, e non ne conobbe mai neppure il
nome. Lui le disse che non sopportava di saperla sola, lei rispose che
ci avrebbe pensato. Ma quel giorno di primavera, quel giorno di
aprile, con la casa che brillava come uno specchio nuovo, e quel
profumo di gelsomini che stordiva, quel giorno, la canzone ruppe
improvvisamente il silenzio attonito del primo pomeriggio,
riportandola alla realtà della sua promessa.
- Ciao mamma - sentì che diceva Cristina.
- Ciao tesoro - rispose Sara. - Hai fatto buon viaggio? -
- Sì.-
I passi di Marco risuonarono nel
corridoio. Chissà perché ci metteva così tanto, lei era sempre più
stanca. Sempre più debole. Lo sentì armeggiare con qualcosa. Forse
quel mangianastri che aveva comperato, quando l’aveva registrata
apposta per lei. Ascoltarla di nuovo, ora, non desiderava altro.
- Cos’è? - domandò la nipote.
- È Miniera - intervenne Sara. - Piace tanto a nonna. -
- Oh! - esclamò la ragazza.
Il mio segreto, in questa canzone, pensò Adele. Brividi conosciuti
l’aggredirono. Quella musica e quelle parole, suscitavano in lei
un’emozione profonda, ogni volta che le udiva. Il titolo non lo
avrebbe mai dimenticato. Lo aveva chiesto a Marco, quel pomeriggio
d’aprile, quando per caso le era capitato di ascoltarla per la prima
volta. Aveva appena indossato un vestito nuovo, pronta ad uscire,
quando le note si erano sprigionate dallo stereo del figlio avvolgendo
la stanza. Era una storia di minatori, e parlava di ritorni, di
carbone e di mani nere di fumo…
La musica, ora, si levò nell’aria, e Adele si mosse piano nel letto.
Avrebbe dato qualunque cosa, adesso, per poter ballare con Mario
queste note, ai loro tempi sconosciute. L’altro uomo l’attendeva
fuori, quel giorno d’aprile. Le avrebbe rivelato il suo nome ed altre
cose ancora, e lei aveva indossato quel vestito per l’occasione. Ma la
canzone, chissà perché, la stava distraendo, con quelle frasi dense di
significato. “Le case, le pietre, ed il car-bone dipingeva, di nero,
il mondo…” Si era fermata, in mezzo alla stanza, e aveva ascoltato,
distratta. Ancora pochi istanti per aprire la porta e uscire, ma la
musica aveva preso a crescere d’intensità, e le parole la riportavano
a sensazioni conosciute. “Tu quando tornavo eri felice…” Di nuovo il
tarlo che la tormentava, e lei non aveva capito il perché, paralizzata
con la mano sulla maniglia, quando Mario le era esploso nella mente.
Nitido, reale, una presenza nella stanza che l’aveva spinta a toccarsi
l’anulare sinistro. Le due fedi erano ancora insieme! “Di rivedere le
mie mani…” recitava la canzone, e lei aveva rivisto, come in un film,
quella scena al garage della Montecatini. “Meglio di no” diceva il
medico di famiglia, fulminandola con gli occhi. E suo marito steso lì,
su quelle tavole arrangiate, in quello stanzone che rimbombava di
pianti e grida, che mostrava gli scarponi legati come solo lui sapeva,
e le mani. Quelle mani…
“Nere di fumo, bianche d’amore…” disse ora la voce in falsetto, eterea
e inarrivabile. Adele tremò, mentre i versi salivano in cielo, ora
come quel giorno d’aprile, per restare sospesi nell’aria in attesa che
si affievolisse la musica.
- Bianche d’amore - disse Adele, e la voce si spense in un sussurro.
Avrebbe pianto, ma ricacciò dentro le lacrime. Il senso di una vita,
in queste parole semplici, eppure rivelatrici. In mezzo alla stanza,
la brezza di primavera che entrava dalle finestre aperte e l’orologio
che diceva quanto fosse tardi, aveva infine capito, in quel ritorno di
Mario dall’inferno di Camorra, perché le mani fossero così immacolate.
“Bianche d’amore…” un messaggio. Un modo per dirle che l’avrebbe
sempre amata, che non sarebbe mai stata sola. Così, l’uomo in attesa
per le strade di Ribolla, in quel pomeriggio caldo, aspettò invano. E
poi fu come non fosse mai esistito, se non nella fantasia.
Il sole si era certamente spostato. Adele scorse una nuova luce
dorata, attraversare la tenda e avvolgere come un’aureola le persone
nella camera. La canzone era terminata, e un silenzio ostinato era
sceso intorno, come se ognuno stesse ripensando a quelle parole. Non
era stato difficile tenersi dentro il segreto. La vita era corsa via
in un baleno, portando con sé, quasi subito, il matrimonio di Marco, e
poi quel magnifico dono che era stata Cristina. Una ragazza che
riempiva la casa con la sua vivacità, e quel trillo di voce che era
come pizzicare un’arpa.
- Nonna mi sentite? -
Sì, ti sento, pensò Adele. Non riusciva a parlare, tuttavia. Quelle
emo-zioni, ora come allora così intense, le avevano tolto quasi tutte
le energie residue. Sentì le mani della nipote aggiustare la trapunta,
e poi una lieve carezza sui suoi capelli. Non poteva distinguere che
la sagoma di lei, ma indovinò quel sorriso così aperto e quello
sguardo così dolce. Le avrebbe confidato il suo segreto, ma capiva
come questo, oramai, appartenesse solo ai suoi ricordi. Custodito
nello scrigno più riposto dell’anima. Un nuovo dono d’amore da portare
a…
- Sarò sempre tua sposa, Mario - disse, e la sua voce la stupì.
- Nonna…Nonna. - Cristina le prese le spalle. Marco e Sara si
accostarono al letto.
- Mamma! -
- Adele…Adele.
Mani le toccarono il polso, e poi il cuore. La sua famiglia tutta
intorno!
Avrebbe voluto dire tante cose, ma la voce non voleva uscire. Cristina
avvicinò il suo volto e di nuovo sentì quel bacio delicato sulla
fronte. Non poteva vederla più bene, oramai. Aveva la sensazione di
vagare in quella luce d’oro che rimandava la tenda. Scorgeva a fatica
sagome in movimento, ma non le fu difficile indovinarne i volti, e
immaginare in quegli occhi la preoccupazione…
Gli occhi di Cristina, pensò. Così vagamente orientali, come quelli di
Mario. Il giorno che nacque, il tempo pareva essersi fermato, in
quella sala d’attesa che sapeva di lavanda. Un’infermiera era apparsa,
all’improvviso, con un sorriso che le illuminava il volto, e aveva
annunciato: “Femmina!”. Per un istante, aveva temuto che i suoi
orecchi la stessero tradendo. Era entrata nella camerina, dove la
bimba dormiva appoggiata al seno della madre e… “Prendila in braccio
Adele” aveva detto Sara. “Fammi contenta”. E gliel’aveva consegnata,
semplicemente così, con gli occhi che le brillavano come due more
lavate da un acquazzone estivo. Sì, la vita pareggiava i conti… Ma
quante emozioni! Troppe, per un solo giorno. Si sentiva esausta, in
preda ad un bisogno impellente di riposare, riposare…Niente dolori,
per fortuna, ma la trapunta stava diventando
pesante, e quel freddo, così intenso, che saliva su, fino al petto…
Mosse appena le mani, e di nuovo altre mani la toccarono, familiari,
amate. Avrebbe voluto parlare, ma il respiro si stava facendo sempre
più lento.
- Nonna …-
- Mamma…-
- Adele…-
Il sole non la scaldava più. Perfino
respirare stava diventando un tormento. Le mani sentivano allontanarsi
quel tocco confortante della sua famiglia. Chissà quale destino per
tutti, se non avesse ascoltato, quel pomeriggio d’aprile, quella
canzone. Una sofferenza, la miniera, che ora stava per finire, con
quel tarlo che svaniva, poco a poco, cedendo il posto ad un
meraviglioso senso di pace. Tranquillizzare i suoi! Rassicurarli!
Questo, avrebbe voluto fare. Ma non poteva più trasmettere loro, ciò
che sentiva crescere ora dentro di sé. Una voce sempre più netta, più
forte!
“Sto andando da Mario” avrebbe detto volentieri.
Ma non le riuscì.