I racconti di Norberto Sabatini.

Racconto che ha partecipato nel 2002 al premio Castelfiorentino

RibollaStory

RIBOLLASTORY, questo era il nome del sito Internet. Alberto sedette al tavolo, accese il computer e si collegò. Stava per rivivere un pezzo del suo passato e il cuore prese a battere più forte, e si sentì confuso, mentre luci elettroniche e suoni vagamente metallici accompagnavano l’accensione. Sullo schermo fluorescente, finalmente, comparve un’immagine, e la foto di Ribolla fine anni cinquanta lo ipnotizzò. C’erano parole come: POZZI E CASTELLI, IL PAESE COM’ERA, IL CALCIO, LA TRAGEDIA DEL 54, IL PROCESSO.

Un paese difficile, gli dissero All’Ufficio del Personale, e la descrizione gli era parsa appropriata appena arrivato, quel gennaio del 59. Un villaggio minerario, del resto, cosa mai avrebbe potuto essere? Il computer ora mostrava cartoline e foto e disegni, tappe di un viaggio a ritroso nel tempo, che sciolsero subito l’onda anomala del ricordo. Quante cose aveva imparato! Tornavano, all’improvviso, emozioni che credeva sepolte nelle pieghe della memoria, i colori del suo graduale coinvolgimento in quella storia incredibile. 

Il mio primo impiego alla Banca Toscana, pensò, puntando con il “mouse” LA TRAGEDIA DEL 54. A Ribolla non si parlava d’altro, in quei giorni. Aveva preso alloggio nell’unico alberghetto che c’era, con bar e ristorante, dove il padrone, un uomo tarchiato e un po’ pelato, coi baffi folti e neri, aveva cominciato a spiegare, aiutato dalla moglie e dagli avventori. Quel 4 maggio di cinque anni prima aveva segnato per sempre tutto e tutti. L’esplosione del grisou, i morti, il funerale. Una tragedia che neppure i migliori giornalisti di allora avevano scavato con compiutezza. Eppure, proprio quella lo aveva condotto per mano dentro al paese. All’inizio erano stati gli assegni che molti versavano, le pensioni di reversibilità, come aveva spiegato sbrigativo il Direttore. Erano tanti soldi, e questo lo aveva stupito, finché non aveva saputo che erano il frutto della “sciagura.” Sospirò, lo schermo che si apriva sulle foto del funerale, e sentì bruciare il petto. Cinquantamila persone avevano partecipato, stretti l’un l’altro durante la cerimonia funebre, come a trasmettersi la forza per sostenere quel peso. “Signor banchiere…Signor banchiere…” la gente gli diceva con urgenza, quasi con foga, come se il bisogno di coinvolgere persone estranee potesse recare sollievo a quel dramma senza fine. Il paese, che gli era parso all’inizio così scontroso e freddo, così grigio in quella polvere di carbone, si era spogliato della propria essenza per trascinarlo nelle sue segrete emozioni. Neppure quelle immagini di disperazione - mogli e madri e sorelle e padri e fratelli e amici abbracciati alle bare - potevano rendere l’idea di cosa fosse stato il funerale. Soltanto parlando con le persone aveva capito e sentito.
- Il Pozzo maledetto- mormorò.
Non gli era mai riuscito andare a vederlo, e tuttavia gli pareva, anche adesso che armeggiava col “mouse” cercandone la foto, di averlo sempre conosciuto. L’immagine lo mostrava com’era oggi e com’era allora, dopo lo scoppio. I due castelli della Sezione “Camora” si ergevano minacciosi, il “Nove” e il “Nove bis”, uno di questi scoperchiato. Dopo la “botta”, gli avevano raccontato una sera al bar, la tettoia era caduta addosso all’Ingegner Baseggio, ferendolo alla testa. “Uno anche per la Montecatini!” avevano esclamato alcuni. “Via, via” aveva detto qualcun altro. “Baseggio non era come gli altri.” Frasi perse, tra un caffè e un Tre Stelle, che mostravano quanto profondo fosse il rancore, quanto devastante il dolore. Gli si velarono gli occhi. Si sarebbe spostato su altre immagini, ma non poteva. Non riusciva a venir via dal “Camora”, così come si presentava ora, nell’altra foto. Due costruzioni semidiroccate, avviluppate dai rovi e circondate da alberi, come se la natura avesse offerto loro una protezione per nasconderle al giudizio. Al venerdì tornava ad Arezzo, dalla fidanzata, e proprio lei aveva scorto i suoi primi turbamenti. “Alberto cos’hai?” gli domandava. “Nulla” rispondeva, ma sempre meno convinto, sempre più pronto a farla partecipe. I quarantatré morti non avevano ricevuto giustizia. I soldi come prezzo per l’oblio. Si parlava anche di questo a Ribolla: il Processo di Verona. “Cliccò” sulla parola, ricordando il suo stupore quando “Celebrato nell’aula dove condannarono Ciano” gli avevano detto con enfasi alcuni anziani. Ma questa volta non c’era stata condanna. Un “tutti assolti per non aver commesso il fatto” che aveva aggiunto, alla disperazione, la folle certezza della beffa. Distolse lo sguardo, passandosi la mano tra i capelli ormai grigi. Adesso ricordava anche i nomi dei responsabili. Aveva pensato spesso a Ribolla in questi anni, ma senza approfondire, senza scavare. Ed ora, quello schermo che gli brillava davanti agli occhi, pareva capace di estrarre perfino ciò che credeva rimosso. Chissà che ne era stato dei vari… Marcon… Rostan… Carli…nomi che scorrevano nella luce del computer. Che cosa avranno provato dopo? E l’Ingegner Padroni? Il Direttore della miniera. Cosa avrà sentito dentro di sé, con il tempo che scorre, l’uomo forte della Montecatini? L’incaricato di ridurre il personale con ogni mezzo e preparare tutti alla prossima chiusura. Una miniera “difficile”, con troppi “rossi”, che lavorava in perdita. Per strada, in banca, le sere al bar, la gente parlava così, in maniera spicciola. Parole dure ed espressioni forti, che ti mordevano come una secchiata d’acqua gelida. “Padroni non guardava in faccia a nessuno” dicevano. “Soprattutto quelli della CGIL. Per un ritardo di cinque minuti, questi bastardi erano capaci di licenziarti.” Era stato come togliere un velo, un pezzetto alla volta, per scoprire poco a poco lo spessore di questo paese, la sua miseria e la sua composta dignità. “Tu hai qualcosa che non va” indagava la fidanzata, al venerdì. “Ma no, non ho niente” rispondeva, con la mente a Ribolla e alle sue sconfitte. A nulla erano valse le testimonianze, che volevano dimostrare come lo scoppio fosse partito dalla sezione sud ovest di “Camora”, dove un incendio, difficile da domare, era stato combattuto dalla Direzione alterando la ventilazione nelle gallerie, togliendo aria al fuoco, ma mescolando l’ossigeno al grisou nella misura che avrebbe consentito lo scoppio. “Si sapeva, questo” gli avevano detto operai del luogo. “Si sapeva, che prima o poi sarebbe esploso il gas. Tutti noi, prima di scendere, si pregava Santa Barbara.” La pena per loro, e insieme l’ammirazione per quel coraggio, erano salite dentro di lui, tracimando come una diga riempita troppo in fretta. E la rabbia e il disprezzo, quella sera che era caduto un altro velo? Rabbrividì nella penombra. Una sconfitta annunciata, contro un avversario più forte e più accorto. Di nuovo il denaro, come prezzo per la rinuncia, il compenso per lasciar correre. “Cinquecentomila lire alla vedova e un milione per ogni orfano a carico” gli avevano raccontato gli avventori del bar ristorante albergo. Così, a Verona, non tutti avevano combattuto. Il potere dei soldi, lui che aveva lavorato in banca, lo conosceva bene. “Ma i morti nessuno te li può restituire” avevano detto altri. “I potenti sono potenti. Almeno, così, le famiglie hanno avuto qualcosa. Molti si sono fatti una casa.” Un altro modo di accettare il destino. “Cliccò” su una nuova immagine, una cartolina illustrata che conteneva quattro piccole foto e la scritta SALUTI DA RIBOLLA.
- Oh! E questo cos’è? - disse con un filo di voce.
Strinse gli occhi per vedere meglio e sul video, un pezzo alla volta, la fotografia si scoprì nei suoi colori tenui. Il pozzo “Dieci”, ma certo! Scattata negli anni sessanta di sicuro. Perfino dalla banca si poteva vedere il “Dieci”, appollaiato in una collina a sud est, come una sentinella. L’ultima costruzione, la più moderna, con le gallerie rivestite in cemento. Le sole che venissero mostrate ai giornalisti in visita. Ne ingrandì un’altra, in bianco e nero, che mostrava il “Due” e la “Cernita”, uniti da quel lungo nastro per trasferire il carbone. Chissà perché, guardandolo, gli veniva sempre da pensare al cordone ombelicale. Proprio lì, si era consumato l’ultimo capitolo di quella storia. Sentì salire l’emozione, calda e intensa, come liquida, rammentando i giorni cupi dell’occupazione, quel marzo del 59. Tutti portavano viveri, in cesti di vimini, agli uomini asserragliati sottoterra, a duecento, trecento metri. C’era andato anche lui, con il padrone dell’albergo, e adesso nuove immagini gli affollarono la mente. “Faranno come allora” dicevano le persone assiepate intorno ai pozzi e tra i castelli. Gli ascensori bloccati e insolitamente immobili, parevano gabbie vuote e silenziose, come se immaginari uccelli fossero volati via. La “Celere” sciamava dappertutto per controllare la situazione. Si parlava piano, e subito non aveva capito. Nell’occupazione del 53, gli avevano spiegato, il Dottor Riccardi, braccio destro del Padroni, aveva mandato giù la Polizia e fatto uscire tutti in manette. Non gli era sembrato possibile. “Quarantacinque minatori, tirati fuor dal Camora legati come cani!” qualcuno aveva esclamato senza paura. “Violazione di domicilio. Ma quale violazione, se laggiù ci lasciamo la nostra vita!” Sì, aveva amato Ribolla, infine. E rispettato la sua gente e le sue tragedie. Sentì che questo non era svanito. Semmai assopito, disperso nei corridoi dell’anima, occultato dal tempo come in un grande gioco di prestigio. Aveva vissuto quei giorni con la stessa trepidazione di uno del paese. Uomini e donne accorrevano ai pozzi, i vestiti indossati troppe volte, i volti scavati e gli occhi accesi dalla febbre dell’incertezza. Nell’aria cupa e nebbiosa, satura di furore represso, i cesti di vimini scendevano giù riempiendo le gabbie. I “celerotti” vigilavano, sempre più confusi, ingolfati in quei pastrani grigioverde. Una specie di formicaio, come la festa di Santa Barbara protettrice dei minatori. Sorrise. Aveva assistito anche lui a quella Messa sotto la “Cernita”. Una cerimonia affollatissima, nella quale il paese si stringeva compatto, come se, un atto devoto e occasionale, potesse esorcizzare il pericolo. Il 4 dicembre si dimenticava anche la paura, gli avevano spiegato quando, stupito, aveva chiesto che ricorrenza fosse quella, dove c’erano anche … i “rossi”. “Ci sono anche loro, certo” gli avevano detto. “Non sono minatori forse?” Una risposta che lo aveva quasi tramortito. E il venerdì successivo, la fidanzata aveva finalmente saputo, e scoperto. Ribolla non era ciò che sembrava. Un villaggio minerario, con le case piccole, gli alloggi per gli operai, avvolto nella polvere e lacerato dal suono della sirena aziendale tre volte il giorno, ad ogni cambio di turno. Ribolla aveva un cuore, e lui lo aveva ascoltato, il battito di quel cuore. Lo aveva compreso, nei suoi segreti meccanismi, come fosse un romanzo a puntate. La sua fidanzata lo aveva stretto forte a sé, quel venerdì, ed ora si scoprì a pensare la stessa cosa di allora, che forse anche lei avesse voluto sentire il cuore di Ribolla. Ma il paese aveva perso anche l’ultima battaglia, e la miniera chiusa. Vani i tentativi di creare una Cooperativa di minatori, che potesse sfruttare parte del bacino. L’Ingegner Madotto, finalmente al posto del Padroni, si prodigò, la gente s’illuse, ma nessuno poté qualcosa. “La Politica…” dicevano. “Il Piano Marshall…”. E via così per un paio d’anni. Fino al 61, gli pareva di ricordare. Sentì, a questo punto, il bisogno di fermarsi. Tante, troppe le emozioni, che proprio oggi si aggiungevano a quella del suo sessantacinquesimo compleanno. Cinque anni aveva lavorato lì, dove quasi tutto - il cinema teatro, il dopolavoro, l’ambulatorio, il campo da tennis in terra battuta riservato ai dirigenti, il campo sportivo “Costantino” che prendeva nome dal vicino pozzo - quasi tutto, salvo poche altre costruzioni, erano proprietà della Montecatini. Una sorta di padre-padrone, che dava e prendeva, dava e prendeva. Ma qualcosa c’era, che brillava in fondo al buio. Anche di questo si parlava. Sembrava che la provvidenza avesse concesso quell’avvenimento, per dimostrare come non si dovesse mai disperare. Una specie di rivincita su quelle disgrazie, un appiglio, un regalo del Cielo, il cui solo parlarne serviva ad alleviare, anche per poco, il cupo e opprimente dolore che si mescolava tutti i giorni alla polvere di carbone. Cercò e trovò IL CALCIO, e la squadra, “quella squadra”, gli si piazzò davanti. Era l’orgoglio di tutti, formata soltanto da gente di Ribolla. La foto si trovava dappertutto. Una sera, nel guardarla più a lungo del solito, aveva suscitato l’intervento dell’albergatore. Incorniciata, appesa sopra il bancone del bar accanto al Torino di Superga, mostrava dodici uomini, giocatori e allenatore, in casacca a strisce bianconere, schierati sul campo come in attesa dell’Inno nazionale. Rigorosamente tesi, le braccia conserte, gli occhi rivolti all’obiettivo e i volti giovani, puliti e limpidi, di chi si appresta ad un’impresa che rimarrà. “Campionato Regionale Lega giovanile 1956” si leggeva sotto la foto, insieme ai nomi dei calciatori. Lo avevano vinto, quel campionato, e senza perdere una sola partita. L’uomo tarchiato e un po’ pelato, coi baffi folti e neri, gli aveva spiegato come in finale avessero battuto nientemeno che la Rondinella Marzocco. “Uno a zero a Firenze; due a uno qui” gli aveva detto, aggiungendo a ruota libera: “ Una squadra troppo forte, quattro o cinque avrebbero potuto fare anche strada. All’inizio, al Costantino si perdeva, ma dopo…” e indicando il secondo a sinistra, uno spilungone coi capelli neri e ondulati e il sorriso gioviale, aveva proseguito: “Questo era un fenomeno. Quelli del Marzocco, lo lasciarono libero du’ volte sole, ma bastarono. Du’ reti gli fece, e si rispedirono a casa con le pive nel sacco.” Alberto si lasciò andare ad una risata liberatoria, rammentando quella frase così colorita, quell’espressione così soddisfatta. Non riusciva a ricordare, tuttavia, come si chiamasse il giocatore. Scorse la lista dei nomi e… Casagrande! Ecco come si chiamava, Dilo Casagrande. Una perla rara, quella vittoria, quindi più brillante e preziosa, ben visibile tra la polvere, le montagne di carbone e le infide gallerie di quel bacino minerario, prima ancora che paese. Ma…Forse si stava facendo tardi. Un vero peccato. - Nonno! Nonno! - sentì gridare, e le sue nipotine Laura ed Elena schizzarono all’improvviso dentro la stanza.
- Tanti auguri nonno! - esclamarono insieme. E poi dissero: - Il pranzo è pronto, vieni. - Alberto le abbracciò, stringendole a sé con forza, poi si dispose a spegnere il computer. Ci voleva sempre un po’, con tutte quelle procedure. Ma prima…Certo, prima occorreva inserire RIBOLLASTORY tra i “Preferiti”. Perché presto, molto presto, gli avrebbe fatto ancora visita. 

 

Dedicato a Alberto Cascianini:
…che mi ha tenuto sulle ginocchia
…che mi ha difeso dai rimbrotti di babbo e mamma
…che mi ha portato con sé, a quel cinema della Montecatini
…che giocava con noi alla “Tombola geografica”  e ci angosciava con Gerusalemme
…che, infine, mi ha ispirato questo racconto. 

Aprile/Maggio 2002.

Norberto Sabatini

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