I racconti di Norberto Sabatini.
Racconto che ha partecipato nel 2001 al premio Castelfiorentino
A SUD DI RIBOLLA
Una passeggiata di primavera, la voglia di godermi una giornata di sole e la curiosità di venire quaggiù, a sud di Ribolla, un tempo bacino minerario. Ci lavoravano quasi quattromila operai, un esercito di Nibelunghi diviso in tre turni giornalieri. Immagini d'epoca che ho con me, mostrano una piana irregolare, popolata di castelli di legno che sovrastano i pozzi, e danno la sensazione che una schiera di torri medioevali stia assediando il paese. Vago intorno con lo sguardo e nulla di tutto ciò mi appare. Nel verde erboso dei campi, pochi alberi sparsi ombreggiano le rovine rocciose della miniera, le cui gallerie sono ormai allagate, e cumuli di sassi, misti al legno delle torri, hanno riempito i pozzi. Questa foto dovrebbe aiutarmi ad assegnare loro un nome e invece mi confonde. E' come se la natura si fosse impegnata a coprire ogni traccia, per cancellare nella memoria qualsiasi ricordo di quegli anni. Non sono sicuro che qui ci fosse il pozzo "Raffo", anche se le immagini sembrerebbero confermarlo.Per anni Ribolla è stata sempre e solo questo nome. Una parola che racchiude la vita e la coscienza di questo paese, la cui pronuncia pare servire, in qualche modo, a scaricare su di te il peso di un'angoscia collettiva.
- No, lì c'era il "Littorio" - dice qualcuno dietro di me. - Il "Raffo" è laggiù.-Devo aver pensato ad alta voce. E' Zino, un ex minatore, che si avvicina. Vorrei salutarlo, ma mi precede e indica più a sud, sopra la collina, due costruzioni chiare e fatiscenti.
- Quello lassù è il "Camora" - dice con solennità.Se hai vissuto a Ribolla, allora lo sai. Qualcuno ti avrà detto, presto o tardi, cosa significa "Camora".
I resti del pozzo 10 a Sud di Ribolla
- Quarantadue minatori ci sono morti in quel pozzo, che sia maledetto ogni giorno! - Esclama Zino, interrompendo i miei pensieri.
- Una disgrazia - rispondo.
Da bambino, ti colpisce solo il freddo dato statistico. Ricorderai per sempre quel nome, quella data e quel numero, convinto di possedere, con ciò, l'essenza di tutta la storia. Zino si sbaglia, sono certo.
- Mi sembrava che fossero quarantatré - osservo con cautela.
- Sì, è vero - mi risponde - ma il quarantatreesimo fu per colpa mia.-
Non capisco. Tutto questo mi è nuovo, e contraddice quello che so da quarant'anni. Che colpa può avere Zino in ciò che accadde quel 4 maggio 1954? Fu la Montecatini, proprietaria della miniera, che risparmiava sui costi perché voleva chiudere, la principale responsabile della sciagura. I dirigenti sapevano che poteva esplodere il grisou, in ogni momento.
- Ero con la seconda gita, quella delle otto e un quarto - dice Zino. - Si scendeva a duecentosessantacinque metri, lo sai cosa significa?-
Un sopravvissuto, dunque. Non lo sapevo e mai mi ero preoccupato che ce ne fossero stati, e certo non so cosa significhi scendere laggiù.
- Suona il campanello dell'arganista - mi spiega - ed è il segnale che si parte, ma non si sa se si torna. Siamo in quattro o cinque, di più non entrano in quella gabbia che chiamano ascensore. A volte qualcuno scherza, e questo aiuta mentre la terra t'inghiotte. -
- Deve essere brutto - balbetto. E' una banalità, lo so, ma non trovo altro da dire. Sono smarrito, come se, all'improvviso, mi trovassi catapultato dentro quel pozzo.
- Non appena l'ascensore si ferma e sai che sei arrivato, quello è il momento peggiore. L'arganista tira su per far scendere gli altri e allora ti prende la paura di non rivedere la superficie, di non tornare a casa. Sei un ostaggio dentro al pozzo. Le gallerie si spalancano davanti come un labirinto, la polvere di lignite ti avvolge e non capisci neppure qual è il buco giusto. L'avanzamento, si chiama così. Ci si fa l'abitudine, diamine. Ma ho visto gente in preda alle convulsioni, specie i primi tempi. Ragazzi pisciarsi addosso. -
Si ferma, la testa tra le mani. E' un uomo buono Zino. Con quei suoi occhi chiari e il viso rugoso, mi ricorda Spencer Tracy. Proseguiamo la nostra passeggiata occasionale, calpestando luoghi oggi deserti, ma un tempo brulicanti d'uomini e vagoncini colmi di lignite e castelli di legno resinato, dai quali scendevano e salivano, appese a cavi d'acciaio, autentiche trappole per topi, zeppe di disperati con elmetto e lampada ad acetilene appesa alla cinghia dei calzoni. Mi chiedo se, per caso, sono sopra una galleria, una di quelle della tragedia. Davanti a me le rovine irriconoscibili del "Raffo". Mi avvicino e scosto l'erba e i rovi per vedere se, attraverso metri cubi di terra e detriti, posso scorgere qualcosa di ciò che è rimasto là sotto. E' un'impresa impossibile, lo so, ma un brivido mi addenta la schiena, qualcosa che non ho mai provato prima, un sussurro nell'anima, un presentimento, non capisco. E' come se, da ora, appartenessi un po' di più a questi luoghi e alla loro storia. Una modesta comparsa, in ritardo per partecipare al film. Zino mi raggiunge e dice: - Al "Raffo" e al "Dieci" scesero i primi aiuti, ma sbagliavano. Lo scoppio fu sotto al "Camora" e incendiò la polvere di carbone, che invase tutte le gallerie. Solo più tardi, nel pomeriggio, capirono che si doveva scendere proprio lì, se si voleva tirare fuori qualcuno.-
- Ma tu che c'entri?- Chiedo. - Che cosa hai fatto per sentirti colpevole? -
La miniera è come un campo minato, dovrei rendermene conto dal mio materiale fotografico. Le gallerie sono anguste, la volta sostenuta da travi di legno e ti aspetti che, perfino in foto, da un momento all'altro, possa cedere. Gli uomini sono ripresi in posizioni grottesche e scomode. Facce nere e occhi invasati, che spiano nell'obiettivo, forse cercando tracce di luce e aria pura. Ti parlano, queste immagini, e raccontano del pericolo in agguato ovunque.
- Là sotto non puoi sbagliare - dice Zino - perché potrebbe costare la vita a te e ad altri. Te lo spiegano fin dal primo giorno e diventa una seconda pelle, a forza di sentirselo dire. Per questo sono colpevole e mi porto dentro il rimorso. Da allora, da quella mattina maledetta.-
- Ma perché?- Insisto incredulo.
- Si scese per ultimi, in cinque - riprende. - C'era anche Rolando, che per noi era il portafortuna. Gli piaceva il bere e le carte, ma era un ragazzo tranquillo, buono. Faceva quello che gli comandavi, sempre, senza ripetere. Eravamo appena arrivati, quando m'accorsi che non avevo l'acetilene, ma la gabbia si aprì e gli altri presero ciascuno nella propria direzione. Uno doveva rimanere, a controllare che l'ascensore salisse bene. Toccava a lui, ma andò in un altro modo. "Rolando vai avanti" gli dissi. "Io cerco il lume". "Il lume? Che lume?" Mi domandò. "L'ho perso, vai avanti che poi ti raggiungo." "E l'arganista?" "Ci penso io" gli risposi "non ti preoccupare."- Si ferma, coprendosi il volto, e il suo dramma affiora in me. E' come se anch'io fossi partecipe di quella stessa vicenda, intrappolato laggiù, con loro. Tremo e stringo le mani, e mi pare di avvertire, tra le dita, il freddo metallo dell'acetilene.
- Lui s'allontanò e io mi misi a cercare, mentre la gabbia risaliva. Saranno passati due minuti, che sentii il boato. Un colpo terribile, tanto forte che pensai non fosse vero. Veniva proprio dalla zona di Rolando, questo lo capii dopo, ma non feci in tempo neppure a gridare, perché una ventata m'investì e fui scaraventato da qualche parte nella galleria. Svenni e mi ritrovai in infermeria, chissà quanto tempo dopo.-
- Potresti essere morto anche tu - gli dico. - Hai avuto fortuna.-
- No - risponde - non avrei mai dovuto perdere l'acetilene. Rolando aveva diciassette anni e una vita intera. Se fosse ancora vivo, oggi sarebbe in pensione a godersi i nipoti, chissà. Sono morti padri di famiglia in quella sciagura, chi con quattro, chi con cinque figlioli sulle spalle. La Montecatini ha provveduto in qualche modo ai bisogni di tutti, ha pagato, ha fatto studiare gli orfani. Il processo finì in una bolla di sapone, come doveva essere, e i morti, alla fine, non c'è tribunale che te li restituisca. Ma Rolando era troppo giovane per morire così, troppo poco aveva vissuto per andarsene in quel modo atroce. Io, avrei dovuto essere al suo posto, e allora il destino sarebbe stato…-
Si ferma e mi guarda con una strana espressione in viso.
- Sarebbe stato giusto - sussurra.
Cosa posso dire ad un uomo che, per tutti questi anni, si è portato dentro un peso come questo? Mi sento impotente, avvilito. La Fiorentina vinse il suo secondo scudetto, quando avevo diciassette anni, e la mia gioia si esaltò nella spensieratezza dell'età. Rolando è morto, a diciassette anni. Il suo dramma mi ha sfiorato che ero ancora in fasce, e sicuramente dormivo quella mattina, ma niente mi svegliò perché, mi hanno detto, dal paese lo scoppio neppure si sentì.
- Il quattro maggio torno sempre qui - prosegue Zino. - Sono quarantasette anni ormai, e ogni volta cerco tra le rovine, tra l'erba e dove so che c'era un pozzo, se per caso posso trovare qualcosa di lui. Mi basterebbe poco, anche un sussurro della sua voce. Invece, niente. Tutta l'acqua pompata dalla Montecatini in quelle gallerie, non ha mai portato a galla qualcosa. Ma io continuo a cercare, non si sa mai…-Solo la "Cernita", dove caricavano la lignite sui vagoncini, rimane in piedi, simile ad una grossa mucca nera. Poco distante, tra le rovine del "Due", qualcuno ha ricavato un orto. Al "Dieci", la stanza dell'argano è un fienile e bisogna far rumore, avvicinandosi, per avvertire chi potrebbe nascondersi dentro. E quest'uomo conserva ancora, intatti, il furore, la disperazione e il rimorso di quel giorno.
Sono stordito. Testimoni di quel giorno sono rimasti pochi, e con il tempo è come se il paese avesse cercato, con ogni mezzo, di dimenticare. Un fitto bosco d'eucalipti e abeti per anni ha nascosto la vallata, e poi sono sorte case e quel bosco raso al suolo. Quasi più niente sopravvive della miniera, da innalzare a monumento storico.
- Non raccontarlo in giro - m'implora quasi. - Neanche mia moglie lo sa. Si sa solo io e te. -
Sì, custodirò questo segreto. Lo prometto a me stesso, mentre arriviamo sullo spiazzo dove sorge il "Camora". Fatico a riconoscerlo. Folti alberi circondano i due edifici ai lati della strada. La bocca del pozzo è coperta, come un sudario, da cespugli di rovi e i quattro blocchi in cemento, su cui poggiava il castello, fanno capolino in mezzo all'erba. La stanza dell'argano è squarciata e un passero, appollaiato sulle rovine, ci guarda incuriosito. Il luogo è come inerme. Qualche chiassosa rondine vola bassa e sembra… Ma sì, la tragedia sembra ormai leggenda, in questa quiete pomeridiana. Zino singhiozza, in silenzio.
- Grazie, grazie - mi dice. - Non ho mai pianto in tutti questi anni. Ci volevi tu, oggi, perché lo facessi davvero. Grazie per avermi ascoltato.-
- No! No! Non fare così - gli dico, ma so che non servirà a nulla. E poi… Avverto come un nodo alla gola, e il desiderio di sentire la voce di Rolando, da qualche parte, sospesa nell'aria. Tutto intorno è silenzio, perfino le rondini hanno cessato i loro gridi. Mi accosto a Zino e lo abbraccio, carezzandogli i folti capelli color latte, e sento le sue spalle tremare di un dolore antico, ed ora sono sicuro che piangerò anch'io. Ma lo farò piano, quasi in punta di piedi.
Per non disturbare.
Norberto Sabatini