- Il contemporaneo -

15 maggio 1954



Carlo Cassola, La guerra della Montecatini, in "Il Contemporaneo", Roma, I, 8 (15 maggio 1954), p.7.
Da: La nascita dei "Minatori della Maremma". Il carteggio Bianciardi - Cassola - Laterza e altri scritti.
A cura di Velio Abati, Fondazione Luciano Bianciardi, Quaderni 5, Giunti ed., 1998.


Nell'estate del '51, poco dopo la fine della cosiddetta "agitazione dei cinque mesi", giungeva a Ribolla un nuovo direttore, l'ing. Leonello Padroni, proveniente dalla miniera di Morgnano di Spoleto.
Arginata l'agitazione, la Montecatini aveva deliberato di passare all'offensiva e a Ribolla destinava un uomo particolarmente adatto alla bisogna. Ribolla infatti era il centro più "rosso", ed era facile prevedere che gli operai avrebbero reagito alla smobilitazione della miniera, già iniziata nel '48 e che la Montecatini si proponeva ora di intensificare.
L'ing. Padroni rispose in pieno alla fiducia accordatagli dai superiori. Nel dicembre del '51 le maestranze erano ridotte a 2000 unità; un anno dopo erano scese a 1700; due anni dopo a 1400.
I metodi usati dalla direzione della miniera erano molteplici. Si licenziava come misura di rappresaglia politica, si licenziava previa visita sanitaria che accertava l'inabilità dell'operaio, si facevano pressioni perché l'operaio accettasse il licenziamento col premio consensuale, minacciandolo altrimenti di licenziamento in tronco con perdita di ogni indennità.
L'argomento principale di questa azione intimidatoria era l'esibizione, al momento giusto, della cartella personale "macchiata" dall'appartenenza al PCI o dello svolgimento di attività politica e sindacale o dalla partecipazione a scioperi, quasi che si trattasse di attività criminali.
E nel frattempo la commissione interna veniva esautorata, lo sfruttamento e il supersfruttamento erano portati fino all'estremo limite, la disciplina sul lavoro inasprita, con multe e sospensioni che fioccavano in continuazione.
"Il Partito comunista ha dichiarato guerra alla Montecatini e la Montecatini dichiara guerra al Partito comunista": questa era la frase che fioriva ogni momento sulle labbra dell'ing. Padroni. E siccome "à la guerre comme à la guerre", l'ing. Padroni non andava per il sottile.
Nell'aprile del '53, quarantacinque minatori che si erano calati nel pozzo "Camorra" per protestare contro una nuova ondata di licenziamenti, ne uscivano ammanettati; e successivamente erano rinviati a giudizio per "violazione di domicilio".
Se qualche operaio si lamentava che gli era stata inflitta per esempio una multa di 5 mila lire, superiore cioè al massimo consentito dai contratti di lavoro, l'ing. Padroni o qualcuno dei suoi dipendenti rispondeva sarcasticamente: "Come? Esistono sempre i contratti di lavoro?".
Ma c'era di peggio. L'arrivo dell'ing. Padroni aveva significato anche un mutamento nei metodi di lavoro. Fino ad allora si era proceduto col cosiddetto metodo "a ripiena". Esaurita una galleria di avanzamento, si procedeva cioè a riempirla, per evitare che vi si formasse il grisou. L'ing. Padroni introdusse il metodo dei franamenti del tetto.
In questo modo si esaurivano rapidamente le possibilità di lavoro, dando così una giustificazione alla smobilitazione della miniera, e la situazione, già tanto pesante nel campo dei rapporti di lavoro, diventava preoccupante anche dal punto di vista della sicurezza.
Gli incendi si verificavano con sempre maggiore frequenza e aumentavano gl'incidenti (nel corso del '53 se ne ebbero anche due mortali).
Ora non pendeva più sul capo dei minatori soltanto il pericolo del licenziamento improvviso, ma era aumentato anche minacciosamente il pericolo di una sciagura. I franamenti infatti non chiudono mai in modo ermetico le gallerie abbandonate, le cavità sono inevitabili e nelle cavità si annida appunto il grisou.
Il 7 agosto '53 il Sindacato Minatori, rendendosi interprete delle apprensioni delle maestranze, inviava al Distretto Minerario una circostanziata denuncia dello stato di pericolo esistente a Ribolla a causa del sistema dei lavori a fondo cieco (cioè con una sola apertura alle spalle del minatore), del metodo dei franamenti e della insufficiente ventilazione (una sola ventola forniva l'aria a più cantieri).
Il Distretto Minerario rispondeva in data 29 ottobre, respingendo punto per punto le denunce del Sindacato. Il metodo dei franamenti, si diceva, ha già larga applicazione altrove, per esempio in Francia.
La difficoltà del fondo cieco è poi "facilmente superata con una sufficiente ventilazione forzata". E' vero che il Sindacato denunciava per l'appunto che la ventilazione non era affatto sufficiente; e anzi lo stesso regolamento di Polizia Mineraria, che risale al 1907, prescrive all'art. 28 che "debbono adottarsi tutte le disposizioni necessarie a rendere, per quanto possibile, indipendente la ventilazione  di ogni singolo cantiere".
Tuttavia, secondo il Distretto Minerario, il "per quanto possibile" non deve intendersi dal punto di vista tecnico, "ma solo dal punto di vista economico, e Ribolla, miniera passiva, non può essere gravata oltre lo strettamente necessario compatibile con la sicurezza".
Il Distretto Minerario concludeva quindi approvando incondizionatamente i metodi di conduzione dell'ing. Padroni.
Invano il Sindacato minatori replicava con un documento in data 18 novembre, che suona oggi come un vero e proprio grido angosciato di allarme; invano il segretario del Sindacato, Betti Duilio, scriveva sull'Unità: "...questo pericolo (del grisou) si fa ogni giorno più incombente e può diventare addirittura strage, se si pensa che dai sondaggi effettuati risulta che la quantità è sempre più rilevante..."; invano il segretario della Commissione Interna, Tacconi Otello, riconfermava il diffuso senso di allarme tra gli operai scrivendo: "In miniera vi sono lavori che fanno paura ad entrarci...".
L'unica risposta della Montecatini fu il licenziamento in tronco del Tacconi, a titolo di rappresaglia.
Il 3 maggio un ennesimo incendio nella compagnia 31 del pozzo "Camorra" era un estremo campanello di allarme. La mattina dopo avveniva l'esplosione e la strage.
Tutti i minatori con cui abbiamo parlato ci hanno ripetuto la stessa cosa, che da mesi loro prevedevano una sciagura e che sebbene non potessero esprimere con sicurezza un parere sulle cause tecniche del disastro, pure non potevano non associarlo all'atteggiamento dei dirigenti della Montecatini, sordi a ogni protesta, a ogni consiglio, a ogni denuncia dello stato di pericolo.
Né potevano dimenticare le continue vessazioni che avevano reso così dura la vita in miniera, e in particolare il fatto che alcuni dei compagni usciti cadaveri dal "Camorra", un'altra volta ne erano usciti ammanettati come malfattori.
Dicendo così, i minatori lenivano certo la disperazione che prende in questi casi, di non poter far nulla per i compagni morti. Certo erano più fortunati quelli addetti alle squadre di recupero delle salme, che almeno sfogavano lavorando il loro dolore. Ma anche la denuncia delle indubbie responsabilità morali e delle possibili responsabilità materiali del disastro era un modo per far qualcosa per i caduti.

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